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Mai + come prima

Un gruppo di sei ragazzi, appena superati gli esami di maturità, parte per una vacanza in montagna. I giovani hanno personalità molto diverse fra loro, e la sistemazione nella piccola baita forzerà i loro caratteri ad aprirsi. In particolare nei confronti di Max (Nicola Cipolla), un ragazzo disabile. Ma sarà l’incidente mortale occorso a uno di loro, Enrico (Marco Casu), li costringerà improvvisamente a crescere, a confrontarsi con la fragilità della vita, proprio nel mezzo di una vacanza spensierata e negli anni in cui ci si sente invincibili.

La vita è spesso dura e ingiusta. Scoprirlo a diciannove anni non è una necessità, ma una fatalità che può, anzi deve, aiutare a crescere. Come succede ai sei protagonisti scelti da Campiotti. Ragazzi più o meno comuni, semplici rappresentanti del genere umano nelle loro differenze. Costretti ad attraversare la loro linea d’ombra in modo inatteso, durante una vacanza. Forse riusciranno a crescere, forse rimarranno schiacciati, ma Campiotti, dopo avere allagato di lacrime la valle in cui campeggiano, non vuole rinunciare alla speranza.

C’è però troppa retorica, troppa enfasi in questo racconto di formazione. Forse c’è troppa partecipazione, quella di un regista che in gioventù ha conosciuto personalmente una vicenda simile a quella che racconta. Ma c’è anche un gusto da fiction serale che si radica forse nelle passate esperienze tv del regista o semplicemente in un senso della misura che scivola anch’esso a valle. Più che alla qualità delle singole scene o alla verosimiglianza, Campiotti pensa ai significati, a evidenziarli. E diviene spesso stucchevole nel tentativo di emozionare a tutti i costi.

La storia, infatti, non procede per spunti narrativi, ma per tesi emotive o pedagogiche, le prime troppo ricamate, le seconde troppo esplicite. Come succede nel dialogo fra i due genitori fuori dal rifugio, che sembra la banale teatralizzazione di un saggio di sociologia della famiglia. Oproprio la sceneggiatura, infatti, la principale imputata nel processo per captazione di sentimenti. Riescono in generale meglio i pochi momenti brillanti, che regalano qualche risata, rispetto ai vari avvitamenti melodrammatici, durante i quali agonizza forse più il pubblico dei protagonisti. Qua e là però è anche la recitazione a non funzionare: emotiva e credibile in certi momenti, sotto la sufficienza in altri. Del resto il cast si compone in gran parte di ragazzi non professionisti, di bravura diseguale o intermittente. Si rivede sullo schermo Francesco Salvi, nella parte del padre di Enrico.

Forse il film manterrà un appeal commerciale, proprio per il suo linguaggio televisivo e per la relativa originalità del soggetto. Ma Campiotti, che ha curato il progetto nella produzione, nella sceneggiatura e nella regia, non riesce a governare uno spunto interessante. Troppe lacrime, troppi simboli, troppe parole esplicite: un’ansioso sovradosaggio di significati. Ripassare dalle parti di Truffaut (per cui il cinema è «filmare la bellezza senza averne l’aria») sarebbe una cura ideale per il giovane regista. Peccato, perché il cinema italiano di «ragazzi e sentimenti», già saturo di pellicole, non aveva proprio bisogno di un prodotto così. (stefano plateo)