L

L’uomo che pianse

Vizio dei registi in crisi con propensioni autoriali: realizzare involontariamente film che non coincidono con le intenzioni di partenza. Vizio degli attori hollywoodiani ricchi e famosi: fidarsi ciecamente delle capacità di quei registi europei che si pretendono autori. Sally Potter, dopo
Orlando
e
Lezioni di tango
, dà alla luce un film che fatalmente soffre questa patologica schizofrenia. Avrebbe voluto narrare una storia di sopravvivenza, un omaggio a tutti coloro che hanno subito lo sradicamento violento e improvviso dalla propria cultura e dalla propria lingua, seguendo le vicende di una ragazza ebrea costretta dalle persecuzioni razziali ad abbandonare il villaggio natio in quel della Russia e a rifarsi una vita nell’Europa degli anni Quaranta, avendo come compagni di viaggio altrettanti sfollati come lo tzigano Depp. Avrebbe voluto, ma non ci è riuscita, dato che il film si incaglia tra le maglie di un melodramma che a più tratti si trasforma in farsa kitsch, esotica e romanzesca. Eppure, a sua detta, si sarebbe preparata accuratamente per ricostruire l’atmosfera degli anni immediatamente precedenti il secondo grande conflitto, andando a ripescare le immagini di Cartier-Bresson e i ritratti che Koudelka ha dedicato al popolo rom. Ma il realismo magico di Koudelka non trova vita in questa pellicola bislacca e poco convincente, che riesce a ridicolizzare persino attori del calibro di Johnny Depp, che sin dalla prima inquadratura appare imbalsamato in una smorfia eroica da re muto del popolo rom. Ciò che rimane sono due ore di immagini inappellabili e ridondanti che vedono un Turturro, cantante d’opera in calzamaglia, costretto a imitare la parlata inglese di un italiano renitente, una Christina Ricci che sembra appena uscita dalla casa horror della
Famiglia Addams
e tanti cavalli bianchi che fanno l’inchino.
(dario zonta)