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L’ultimo re di Scozia

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Se la giustizia divina è una certezza dei credenti, agli altri resta solo il dubbio che quella terrena non sempre si realizzi, se si pensa che uno dei più efferati delinquenti e tiranni del novecento, Idi Amin che per nove anni, dal 1971 al 1979 quando fu deposto, insanguinò la Tanzania, è morto sicuro e rispettato in Arabia Saudita nel 2003 a 78 anni d’età. In Uganda, pare, ancor oggi c’è chi ne parla con rispetto, nonostante le uccisioni, a migliaia, le torture e perfino episodi di cannibalismo. Certo, all’inizio, apparve come un liberatore, colui che avrebbe potuto fare dell’Uganda la prima nazione dell’Africa nera veramente indipendente, e illuse molti paesi occidentali, tra cui l’Inghilterra.

L’ultimo re di Scozia
– appellativo con cui Amin chiamava se stesso (e ne aveva altri, ugualmente fantasiosi e ancor più iperbolici) – è un film con tante buone intenzioni, come quelle di salvare la verità storica con le esigenze dello spettacolo, il documento col thriller d’avventura. È quindi girato nei luoghi reali degli eventi e descrive l’ascesa dle dittatore fino all’episodio di Entebbe, dove Amin cercò di essere il mediatore-negoziatore coi terroristi palestinesi per liberare dal jet dell’Air France gli ostaggi per lo meno quelli non ebrei e non israeliani. A salvare buona parte di questi ultimi, comunque, ci pensò un commando israeliano con un raid a sorpresa. Il film però si ferma appena prima, quando si conclude l’altra vicenda che viene in parallelo raccontata: la storia, questa inventata, di un giovane ingenuo medico scozzese, diventato per caso il dottore privato del dittatore, poi da costui innalzato a uomo di fiducia, con cariche sempre più importanti. Il giovane accecato dall’ammirazione, da una buona dose di ambizione e da una decisa componente di cretineria commette una serie di errori, prima di scoprire in quali guai si sia ficcato.

Non proseguo nel racconto per non togliere la suspense a chi ancora non abbia visto il film. Il quale ha un punto a suo vantaggio, forse l’unico per cui valga davvero la pena di vederlo: l’interpretazione grandissima (direi strepitosa se non fosse un aggettivo abusato fino alla nausea) di Forest Whitaker nel ruolo di Amin, capace di giocare tutte le corde di una personalità schizoide, con tutta la gamma di antitetiche espressioni, dalla simpatica bonarietà al sospetto, dall’ingenuità bambina alla rabbia improvvisa, alla ferocia più spietata, senza mai cadere nel gigionismo. Purtroppo, accanto a questo fuoriclasse, il regista Kevin Macdonald sceglie come coprotagonista, nel ruolo del medico-gonzo, un inerte James McAvoy, talmente sfocato, stupido e antipatico, che si finisce col trovare simpatico e parteggiare per il sanguinario dittatore.

Non ho letto il romanzo di Giles Foden da cui la storia è ricavata, penso che si lascia leggere con abile scorrevolezza e basta, come del resto si lascia vedere il film, e si lascia dimenticare: un thrillerone
classico,
con una spruzzata etnica e politica come si costruivano qualche decennio fa quando le major erano veramente le major e l’Africa una miniera di trame avventuroso-antropologiche, con già tutti i
j’accuse
a posto, per salvaguardare le coscienze registico-produttive e quelle dello spettatore illuminato.
(piero gelli)