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L’odore del sangue

Al suo sesto film, Martone racconta una storia d’amore e di sesso, di gelosia e di perdizione, e la racconta alla sua maniera con quel raggelato iperrealismo che gli è congeniale, in cui continui primi piani si alternano a campi lunghi, volti segnati di dolore in contrasto a immagini di luoghi e natura matrignamente bellissimi. Il soggetto glielo offre il romanzo omonimo, postumo, di Goffredo Parise.

Uno scrittore di mezza età mantiene da quasi vent’anni una relazione con una coetanea, Silvia, una donna ancora bellissima e professionalmente affermata. Sono entrambi due intellettuali, molto benestanti e socialmente risolti. Si amano, ma da sempre hanno deciso di avere ciascuno le sue scappatelle sentimentali o sessuali che siano. In realtà, di questa libertà è soprattutto l’uomo ad approfittare compiutamente: in campagna, nei pressi di Roma, ha una casa in cui l’amica non lo raggiunge mai, perché vi convive praticamente con una ragazza che potrebbe essere sua figlia. Un giorno però, telefonando come d’abitudine, lei gli dice d’aver incontrato casualmente un interessante giovane poco più che ventenne. Qualcosa però, nella reticenza e nell’apparente disinvoltura dell’amica, gli fa intuire che quell’incontro pesa assai più di quello che la donna tende a dire. A poco a poco la verità viene fuori: il giovane è un violento, un asociale, un teppista che vive quasi in simbiosi con una banda di amici legati all’estremismo di destra. L’uomo incalza con le domande, alternando la gelosia a una morbosa partecipazione, mentre la donna da parte sua desidera parlare, gridare quanto quel rapporto la coinvolga sessualmente. Da una parte quindi c’è la coppia legata da un’intimità affettuosa e tenera, da una complicità più o meno sedata dalla comprensione, ma come impaurita dagli anni, dalla consapevolezza dell’affievolirsi non del desiderio ma dei sensi; dall’altra c’è l’avidità, la bestialità, l’istintualità della gioventù: il sesso sempre eretto, sempre pronto, lo sperma e l’odore dolciastro del sangue che sempre vi sono commisti. Ben presto il rapporto tra Silvia e il ragazzo, che non vediamo mai sullo schermo, rivela la sua natura perversa, sadica da parte del giovane e masochistica da parte della donna. L’uomo è costretta a lasciarla, anche per salvare se stesso.

Mi fermo prima della tragica fine, per lasciare un minimo di suspense. Si è già capito, comunque, che l’amore raccontato da Martone è quello che altri film hanno descritto, da
L’impero dei sensi
di Oshima a
La pianista
di Haneke, per citarne solo due celebri fra tanti altri. Ebbene, è proprio il ricordo e il raffronto con gli esempi suddetti a chiarire immediatamente quanto il regista napoletano sia lontano da quell’universo di perversione, quanto non riesca neppure a sfiorarlo. Fin quando i suoi personaggi, immersi in un’ambientazione di décor antonioniano, raccontano la loro incomunicabilità, l’alternarsi dei moti d’affetto tra egoismo, risentimento e rigurgiti di passione, noi spettatori ci crediamo (e un po’ anche ci annoiamo, come ci annoiava, un po’, Antonioni). Quando però il regista vorrebbe che si sentisse quell’odore di sangue, che è nel titolo (e nel romanzo di Parise), quando esplicita la natura masochistica della protagonista, l’odore non si sente e la credibilità si è già perduta in descrizioni di ambienti-bene romani e veneziani, in larghe campate su luoghi turistici e ristoranti con annessi tramonti. E se Fanny Ardant è bella e meravigliosa e potrebbe, con altro regista, eguagliare la Huppert, qui non ce la fa; e ancor meno convince Michele Placido, pur bravo, ma troppo «rozzo» troppo «nazional-popolare» per rendere vere le perverse introversioni di uno scrittore. Infine, ultimo appunto, se Martone asserisce e scrive che il film è tratto liberamente dal romanzo in questione, perché scegliere di non mostrare il giovane sadico? Se nel romanzo, tutto raccontato nella soggettiva della prima persona, la scelta è giusta, nel film diventa uno sbaglio, un errore, un altro motivo di non credibilità.
(piero gelli)