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L’infedele

Marianne è un’attrice. A Bergman, un amico regista che vive da solo su un’isola, racconta la sua vita: legata al famoso direttore d’orchestra Markus, si innamora di David, migliore amico del marito e regista teatrale e cinematografico dalle alterne fortune. Markus, pur consapevole dell’attrazione di Marianne per David, finge di non accorgersi di ciò che accade sperando che si tratti di una passione passeggera. Al di là della superficialità con la quale alcuni commentatori hanno accolto questo film della Ullmann, non si può fare a meno di notare che si tratta di una straordinaria prova registica. Pur imperniato con una determinazione feroce sulla centralità della parola, L’infedele mette in campo una spietata e crudele ossessione del desiderio, che si articola attraverso una serie di primi piani e figure intere cui solo il persistere dello sguardo conferisce la tregua della compassione. Bisogna resistere alla tentazione di filtrare il film attraverso la suggestione della vicenda autobiografica (peraltro evidente). Lavoro di una durezza estrema, atemporale e avulso da qualsiasi connotazione e collocazione sociale, L’infedele tesse l’elogio della finzione, del teatro come «antidolorifico» necessario nei confronti del desiderio. Ciò che inquieta, infatti, è la completa assenza della seduzione dal discorso del film. I corpi sono abitati da una voracità desiderante che si risolve (nel caso di Markus) in una terribile pulsione autofaga che tenta consapevolmente di distruggere qualsiasi forma di vita al di là della propria percezione. Lucidamente moderno, votato a un nitore clinico – e coraggiosamente inattuale – dell’immagine, L’infedele si situa nell’alveo di una classicità disturbante che lavora la parola per intuire nuove realtà di cinema. (giona a. nazzaro)