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Le détour

Parigi, diciottesimo arrondissement. Il quartiere è in mano allo strozzino Damien e al nipote Xavier, che gestiscono lo spaccio di droga attraverso una rete di locali. In omaggio al noir (e forse all’omonimo film di Edgar G. Ulmer: Detour, 1946), la pellicola si apre con la confessione di un omicidio al commissariato, ma poi l’intreccio giallo si concede lunghe digressioni. Détour («svolta», ma anche «deviazione», «scappatoia») racconta una spirale di violenza definitiva e la constatazione della fine di un certo mondo – di solidarietà, di socialità – che ha ceduto il passo a quello della ricchezza in sé e per sé. Qualche imperfezione di sceneggiatura (firmata dal regista e da Nicolas Saada, critico dei «Cahiers du cinéma») penalizza il film rispetto agli altri della serie. Ma alcune sequenze, come quella della morte dello spacciatore, sono memorabili. Salvadori lavora sugli oggetti e sugli ambienti, trasmette – attraverso la risistemazione di un vecchio bar di quartiere – lo spaesamento della vecchia generazione per il vuoto nascosto dietro il nuovo che avanza.
(raffaella giancristofaro)