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Lavorare con lentezza. Radio Alice 100.6 Mhz

Sgualo
(Tommaso Ramenghi)
e Pelo
(Marco Luisi)
sono due ventenni di Safagna, periferia sud di Bologna. Della vita sanno che non vogliono ricalcare il destino dei padri proletari, ma a Safagna o fai l’operaio o il ladro, così i due s’arrangiano con qualche «lavoretto» per Marangon
(Valerio Binasco),
il ricettatore-filosofo che stavolta propone loro qualcosa di grosso: scavare un tunnel sottoterra, in centro, verso la Cassa di Risparmio. Il compenso è troppo ricco, la voglia di fuga troppo grande: accettano. Nelle lunghe notti di scavo li allieta una radiolina che capta solo una stazione, Radio Alice. È il vessillo del movimento studentesco del ’76, galassia di anarchia creativa, velleità contestatarie e provocazione sessuale. Per Sgualo e Pelo una sorta di «paese dei Balocchi» in cui scoprire piaceri e libertà che non potevano immaginare (nuovi linguaggi e musiche e amicizie, il sesso…)

Intanto i carabinieri controllano la radio alla ricerca di germi di sedizione, sebbene il tenente Lippolis
(Valerio Mastandrea)
pensi più a incastrare Marangon e a far carriera, ritenendo innocui quei quattro studentelli borghesi e bohémien. La favola del loro sogno di rinnovamento finisce quando, nel corso dei tafferugli vicino l’università, un carabiniere uccide uno del gruppo (nella realtà Francesco Lorusso, di Lotta Continua). Per due giorni si scatena la guerriglia urbana, la radio viene chiusa, Sgualo arrestato. Ognuno paga il suo fio alla Storia di un Paese impazzito: i ragazzi del movimento scoprono che le loro premesse non potevano che esplodere; Marangon deve fuggire perché il tunnel è stato scoperto; il tenente finisce in provincia, punito per l’uccisione dello studente; e i due di Safagna hanno creduto nella possibilità del cambiamento…

Guido Chiesa, che sulla storia di Radio Alice ha già realizzato un documentario
(Alice è in Paradiso,
2002), firma questa sceneggiatura con i Wu Ming (nuova identità collettiva degli ex Luther Blisset) e ne adotta la cifra stilistica, la «traiettoria ad effetto»: cioè, nascondere gli obiettivi dichiarati dell’operazione narrativa in un intreccio che sembra appena sfiorarli. Così può narrare il ’77 e l’esperienza rivoluzionaria dell’emittente bolognese senza scadere nei cliché della memoria e di un certo epos movimentistico. Di certo funziona l’idea dei borgatari apolitici che incontrano la temperie contestataria borghese, e il contributo del cast è lodevole, i personaggi ben costruiti e coerenti.

Meno coerente, va detto, è la scelta dei vari registri estetici, da quello ironico sui rivoluzionari (con siparietti in stile film muto), al realismo melodrammatico degli scontri, passando per le riprese a «modulazione di frequenza» (che cercano uno spazio di emozioni random) e gli scorci documentaristici della periferia. Ancor meno convince il finale consolatorio, che sciupa d’un tratto l’equilibrio con cui Chiesa aveva reso il difficile mosaico di storie. Viene da chiedersi perché non accettare la storia di quegli anni coi suoi fallimenti e delusioni? La speranza posticcia, che strizza l’occhio ai movimenti di oggi, non rischia di far rientrare dal retro la retorica catechistica che si voleva tener lontana? Comunque, al di là di queste riflessioni su storia e arte, il film diverte e commuove, e merita di essere visto.

(salvatore vitellino)