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La sposa siriana

Mona, donna drusa delle alture del Golan, deve sposare Tallel, star comica della televisione siriana. Non ha mai conosciuto il suo futuro uomo e l’incertezza è angosciante almeno quanto l’imminente perdita del suo passato: una volta varcato il confine e sposatasi, Mona non potrà più fare ritorno alla sua terra. Attorno a lei si muovono i suoi famigliari, che si incrociano in un giorno così importante, ciascuno coi suoi problemi aperti. Sullo sfondo i tormentati rapporti fra Israele e Siria e le contraddizioni di una cultura viva e irrisolta.

La proiezione di film mediorientali è ormai un avvenimento sempre più frequente nei cinema italiani. Si tratta di un fatto positivo: queste pellicole arricchiscono uno scenario dalla prospettiva marcatamente occidentale, dominato dalle produzioni americane e, in subordine, da quelle italiane o europee. Molto spesso i film sono di alto livello, scritti e girati con assoluta consapevolezza, con un valore che, per lo spettatore europeo, supera la semplice curiosità culturale.
La sposa siriana
, girato dall’israeliano Eran Riklis, al suo primo film di larga distribuzione, è una coproduzione israelo-franco-tedesca che ben si inscrive in questo filone.

Il matrimonio di Mona diventa un pretesto per parlare della complessa situazione politica del Golan, un territorio siriano occupato dal 1967 da Israele. La stessa sposa siriana è in realtà solo una delle protagoniste di un film corale, che racconta lo stato delle vite e dei rapporti tra i suoi familiari e il difficile approccio di alcuni di essi con le problematiche geopolitiche della regione. Il padre di Mona, lacerato tra la fedeltà alla causa drusa e gli affetti famigliari; il fratello intellettuale e sposato a una donna russa; la sorella Amal, donna emancipata ma legata a un marito tradizionalista che la opprime: sono questi i personaggi principali che servono a raccontare diversi aspetti della situazione culturale e politica. Tutti personaggi che si affacciano, varcano o hanno superato un confine, mentale o fisico che sia, come richiedono le vicende di chi nella vita affronta una mancanza.

Ma il tono è disincantato, capace di alternare momenti seri e drammatici con situazioni di alleggerimento. Il sorriso o il riso stemperano la percezione, anche per lo spettatore occidentale, delle vite bloccate o frustranti che trascorrono molti dei personaggi. E si tratta di uno sguardo ironico, sinceramente divertito da parte di Riklis, che coglie la tragicommedia che si manifesta dietro qualsiasi tragedia. I suoi personaggi si abituano alle tensioni, colgono il lato paradossale delle varie empasse, o semplicemente non ne possono più: allora sorridono. E ancora più se lo possono permettere gli spettatori, che nel lungo finale possono godersi, complice Riklis, le traiettorie sonnacchiose e surreali della burocrazia di guerra. Il regista non vuole consolare, ma suggerire il giusto disincanto, lo sguardo che in certi casi consente di sopravvivere.

Un cast composito e ben amalgamato anima il film. Riklis è autore di una regia intelligente e composta, che racconta in modo personale senza troppo darlo a vedere. E si avvale della sceneggiatrice israelo?palestinese Susha Arraf, profonda conoscitrice della vita nelle ristrette zone del Golan a maggioranza drusa. Ne viene un film maturo, consapevole, armonico. Impegnato e saggio come molti prodotti di quelle regioni; forse un po’ più ironico, nonostante tutto.
(stefano plateo)