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La sorgente del fiume

La sorgente del fiume di Thèo Angelopoulos, ultimo film del grande regista greco, è a suo dire solo la prima parte di una trilogia che, come l’altra già celebre (I giorni del ’36, 1972; La recita, 1975; I cacciatori, 1977), intende descrivere emblematicamente il secolo appena trascorso attraverso le vicende della sua martoriata terra. Questo primo autonomo blocco è una straziante poeticissima storia d’amore tra due ragazzi che si svolge dal 1936 al 1945, enucleando e coinvolgendo la società greca dell’epoca, tra conflitti politici e sociali, scioperi, dittatura, occupazioni straniere e guerra. Siamo nel Nord-est, sull’estuario di un fiume che si getta nel Mediterraneo, in un povero villaggio costituito in gran parte dall’insediamento di profughi greci fuggiti da Odessa dopo l’ingresso dell’Armata Rossa. Tra questi esuli ci sono due ragazzi che si amano. È un amore contrastato perché il padre di lui, rimasto vedovo, vuole sposare la ragazza, in realtà una bambina anche se già madre di due gemelli che le sono stati tolti per essere affidati ad una donna probabilmente prezzolata (il regista sorvola su alcuni particolari che restano soggetti ad interpretazione). Ma il giorno delle nozze, i due giovani fuggono con l’aiuto di Spiros, un violinista chiamato con altri colleghi per i festeggiamenti poi mancati. Caricati su un camion, si nascondono a Salonicco, prima in un teatro smesso, poi, per sfuggire al vecchio padre che furioso per l’onta e l’umiliazione li cerca dovunque, su una collina detta la collina delle lenzuola, in un agglomerato di povere case, dove Spiros e gli altri musicanti vivono con altri disperati in cerca di lavoro. Costui ha sentito casualmente il ragazzo suonare la fisarmonica e ne ha intuito il grande talento. Lo invita quindi a unirsi a loro per guadagnarsi da vivere in taverne e feste locali. Ma la crisi avanza, il lavoro scarseggia, e il ragazzo ha mire più ambiziose che suonare nelle osterie, sogna l’America, un sogno possibile ma ostacolato dalla responsabilità e dall’amore che ha nei riguardi dei suoi figli e della loro madre. Durante una festa di lavoratori per uno sciopero riuscito, vengono infine ritrovati dal vecchio, che per l’emozione muore di infarto. Seguono i funerali sul fiume e il ritorno della famigliola al paese nella casa paterna. Ma il villaggio li ha condannati, e li isola. Su un enorme all’albero, i giovani trovano appese tutte le bestie del padre di lui e i vetri della casa vengono infranti. La notte stessa del loro ritorno il fiume straripa e sommerge il paese. I due giovani sono costretti a tornare a Salonicco, alla collina delle lenzuola. Ma arriva il fascismo, la dittatura del generale Metaxas, la persecuzione e la miseria. Alexis partirà per gli Stati Uniti, dove spera un giorno di poter condurre anche la sua Heleni e i gemelli. Ma così non avverrà, la guerra e le sue conseguenze protrarranno per sempre la loro separazione. Il film si conclude con il racconto dell’avverso destino di Heleni, in sequenze di accadimenti da tragedia senza catarsi, su un urlo prolungato di dolore che indica la volontà del regista di epicizzare la storia e nel contempo di concettualizzarla secondo le linee che furono già di Brecht e di Benjamim: «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo stato di emergenza in cui viviamo è la regola», scriveva quest’ultimo negli stessi anni in cui Heleni passava di carcere in carcere.
Mi sono dilungato a raccontare una trama per dare un’idea di quanto sia legata alle opere precedenti di Angelopoulos, come ne continui le intenzioni didattiche e le carica mitologica. Che dire di un regista che caparbiamente, in questo suo undicesimo film, persiste nel girare alla sua maniera, inconfondibile e unica, ammirevole e irritante, ostinata e ingenua? Non lo si può che accettare o rifiutare, entrare emozionalmente nella solidità della sua poetica e nella forte eticità del suo discorso, oppure alzarsi insofferenti a quel lento procedere di campi lunghi e interminabili piani sequenze, alle prolungate sottolineature e compiaciute metaforizzazioni. Io sto ancora una volta con Angelopoulos, con il suo cinema che è tutto l’opposto di quello che oggi vuole il mercato, che incanta e commuove per la bellezza delle immagini, la vis fantastica e la verità o sincerità del suo assunto. Qui il regista raccconta la sua storia d’amore quasi shakespeariana, situata negli anni cruciali suddetti, immergendola in uno scenario di minuto realismo, di una visionarietà soffocata, in ambienti degradati e in un’atmosfera di lacrime e pioggia: ombrelli sempre aperti, strade sterrate e motose, locali poveri e abbandonati, porte vuote, negozi serrati, taverne fornite solo di dozzinale ouzo, spari e grida minacciose, e un mare grigio, immobile e separante, su cui si staglia un transatlantico che ricorda il Rex felliniano. Il regista tutto sottolinea con lenti piani sequenza, con compiaciute carrellate, interrompendo le cupe livide scene con improvvisi luminosi squarci di luce, come le lenzuola bianche stese sulla collina, come l’operosità alacre del villaggio, come i balli e la musica (davvero straordinaria, della sua amica e collaboratrice di sempre, Eleni Karaindrou), come a significare una felicità casualmente strappata a un destino metaforicamente mitologico e quindi necessariamente avverso. Quindi siamo in presenza di un capolavoro, di un quasi capolavoro, infine di un capolavoro mancato. Perchè? Perchè purtroppo il regista non ha la forza di chiudere il film con la partenza di Alexis per l’America. Fin qui, si rasenta la perfezione; poi nell’ultima mezzora rovina tutto. Affidando la conclusione alle vicende di Heleni, accatasta confusamente e sommariamente gli anni della dittatura e delle occupazione e della guerra, e calca le ultime sequenze di un pathos melodrammatico talmente eccessivo da sfiorare il ridicolo, non capendo che la ripetizione della sofferenza conclamata, esibita, genera il rifiuto. Ho l’impressione che la collaborazione alla sceneggiatura di Tonino Guerra nuoccia al regista, che avrebbe bisogno di una spalla drammaticamente più astuta che non la naiveté poeticamente sopravvalutata del nostro poeta romagnolo, un tempo illustre sceneggiatore, quando sorretto da registi più furbi e cattivi. Qui invece si assommano i vizi e vezzi di tutti e due. Peccato! Ma, nonostante il disastroso «scivolone» finale, l’opera rimane, per due terzi, un indimenticabile trascinante grande film. (piero gelli)