L

La ricerca della felicità

Guarda la

photogallery
di questo film

Non c’è bisogno di scomodare Toqueville, o Jefferson, o Mark Twain per convincersi della fondatezza del Sogno Americano: uno degli ultimi fortunati a realizzarlo, tale Chris Gardner, ha scritto un libro per illustrare la sua parabola (prontamente pubblicato in Italia dalla Fandango) e il duo internazionale Gabriele Muccino-Will Smith l’ha tradotta in un fortunatissimo film. In Italia se nasci o finisci per la strada, rischi di restarci adattandoti alle circostanze: in fondo è sempre meglio di un lavoro che ti costringe a telefonare per ore e ore a degli sconosciuti, o a urlare numeri e cifre sul capo di altri urlatori, mentre fuori scorre la vita, c’è san Francisco con i suoi tram, le sue luci, il mare.

In America, se sei determinato, fiducioso, ottimista e non permetti a nessuno “di distruggere il tuo sogno”, questo si può avverare. Puoi quindi diventare un ricchissimo broker: quel colletto bianco che negli anni Sessanta i figli dei fiori avevano ripudiato e che, negli anni Ottanta tristemente reaganiani, era tornato in forza e variato magari in yuppy.

In America spesso felicità vuol dire solo ricchezza: è l’unico motivo per cui questo film, così oratoriale, da oratorio in realtà non è. Pur avendone tutti i requisiti (amore, speranza, fiducia, pazienza) è sfacciatamente pedestre e terrestre anche se, verso il finale, una funzione con tanto di cantante gospel e reverendo televisivo riattiva la formuletta statunitense-passepartout “In God We Trust”.

Due parole sulla trama, che probabilmente tutti conoscono. Un giovane venditore di un’apparecchiatura medica difficile a piazzare, faticosa a portare, è in crisi: ha un delizioso figlio di cinque anni, una moglie sgradevole e lagnosa e versa in serie difficoltà economiche. In breve, viene sfrattato dall’appartamento perché non riesce a pagare l’affitto, la moglie lo abbandona (e lo spettatore sospira di sollievo perché è brutta cattiva e castrante) e di degrado in degrado lui e il figlioletto diventano homeless, dormono dove trovano, perfino nei bagni pubblici. Però, casualmente, il protagonista desta la curiosità e la fiducia di un ricco broker, che gli offre la possibilità di fare un praticantato in una società finanziaria, un incarico non retribuito alla fine del quale, dopo vari mesi, solo uno dei tanti praticanti, verrà assunto. E noi sappiamo che sarà lui a vincere, per cui siamo tutti contenti e tranquilli e anche un po’ annoiati di quelle traversie tutto sommato zuccherose: col bambino sempre allegro, fidente nel padre, riccioluto e pulito-pulito, e Smith/Chris anche lui inamidato nonostante le notti insonni passate a studiare e dormire dove capita, magari sui sedili della metropolitana notturna, mentre intorno i colleghi o superiori non si accorgono di nulla o fingono di non vedere l’occultata sofferenza della sua dignità. Negli ultimi minuti del film, dopo tanto soffrire, la felicità degli anni Ottanta si spalanca davanti al protagonista, e didascalie fuori scena ci raccontano la fortuna economica di Chris Gardner.

Perché il film può annoiare profondamente? Forse per il motivo per cui ha molti è piaciuto e piacerà: il suo appartenere a quegli
exempla ficta
che, se azzerano ogni sorpresa, tuttavia ripagano del grado di partecipazione sofferta con la vittoria finale. Quanto al film in sé e per sé, è un buon prodotto di artigianato hollywoodiano; una sceneggiatura che semplifica e riduce abilmente, una scenografia che elegantemente ripropone la San Francisco anni Ottanta, dove ancora si fumava negli uffici – mentre non si allude mai alla libertà sessuale, che c’era, perché ancora non era arrivata la calamità dell’Aids: non si allude perché nel film, forse per colpa del piccolo riccetto, il protagonista non scopa mai né con la moglie né con altre; mentre nel libro, che ho sfogliato, si scopa e molto.

La critica americana ha parlato di
Muccinian Touch,
ma francamente il tocco qui è soprattutto di Will Smith, che tramuta tutto in oro, sia nelle vesti di cantante che di bad boy che in ruoli drammatici come questo. Tutto il film è costruito ossessivamente su di lui e suo figlio (suo figlio anche nella realtà), fino a ridurre a semplice contorno sfocato figuranti e comparse, luoghi o ambienti specifici: non c’è spazio per uscire da quel duo filiale e paterno che ha infiniti esemplari in letteratura e cinema. E per il quale si citano Chaplin e Vittorio De Sica, ma in realtà si trova soltanto, in una scena intollerabile per melensaggine, un omaggio al Benigni de

La vita è bella.

Piacerà il film in Italia? Sbancherà il botteghino come in America? Probabilmente sì. La macchina della propaganda si è messa in moto alla grande. La sera dell’anteprima, giovedì 11 gennaio, Will Smith e Gabbriele Muccino rubavano la scena nei Tg agli ineffabili efferati coniugi di Erba.
(piero gelli)