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La mala educación

Siamo a Madrid, inizi anni Ottanta, Enrique (Fele Martínez) giovane regista di successo cerca sulle pagine dei giornali, in assurdi fatti di cronaca, un soggetto per il suo prossimo film. Suonano alla porta, un giovane coetaneo si presenta e dice di essere Ignacio Rodriguez (Francisco Boira), suo compagno di collegio, ora attore in cerca di lavoro. Enrique se ne libera: ricorda bene l’amico, ma stenta a riconoscerlo, e il ricordo comunque gli fa male. Andandosene il giovane lascia un racconto, La visita, che è la storia della loro infanzia e del loro amore, in collegio, e in particolare di Ignacio in preda alla passione di Padre Manolo (Daniel Giménez Cacho), direttore spirituale, che manda via dalla scuola Enrique come intralcio tra lui e il suo amato pupillo.
Enrique è sommerso dai ricordi, capisce che quel racconto sarà il prossimo suo film, anche se successivamente scopre che il sedicente Ignacio, in arte Angel Andrade (Gael García Bernal), mente, perché in realtà è il fratello minore di costui. La storia si complica in una serie di colpi di scena, rivelati in vari momenti, per flash-back e deformazioni narrative, dentro lo schema cinefilissimo di un truce noir.
La narrazione si deforma e si specchia tramite una triplicazione di fonti: c’è la storia vera; c’è quella raccontata da Ignacio in preda alla droga, vero autore de La visita, prima di finire (come non vi dico); e c’è quella filmata dal regista secondo i suoi desideri; per cui come in un gioco di specchi, fantasia delirante e cruda realtà si confondono, i personaggi si duplicano (Ignacio/Juan; Padre Manolo/Senor Brenguer) e il triangolo (Enrique, Ignacio, padre Manolo) si triplica, mentre la transessualità come rifugio estremo svela sua carta barocco-parodica in duplice direzione: la libertà del desiderio e delle sue realizzazioni ma anche l’irrisione del gioco delle parti («Tutto nel modo è burla»).
Come ho già accennato, tutto avviene dentro un traliccio di thriller americano, presente fin dai titoli di scena, e quel che interessa ad Almodóvar non è certo la satira di un’educazione religiosa, quanto la rappresentazione del suo immaginario, nutrito di ricordi ma anche di tanto cinema, che lui mette dappertutto: fino al punto che il ruolo-base, quello di Juan/Angel (e anche come trans Zahara) mima la femme-fatale di tanti film americani e francesi.
C’è una scena ne La legge del desiderio (1987) che tutti i fan almodovariani non dimenticano: quella in cui la transessuale Tina Quintero (interpretata da Carmen Maura), sorella del protagonista-regista-gay, entra nella chiesa del collegio frequentato da bambino e trova un prete che suona l’organo e gli rivela che lei è quel bambino di cui allora era innamorato.
Questa scena è come l’incunabolo de La mala educación, perché la si ritrova quasi duplicata qui, ed è una delle tante citazioni che lo costellano, la più esplicita a indicarne la matrice autobiografica – più che in altri suoi film – che sorregge la trama.
I dati tornano: l’epoca, tra gli anni Sessanta e i Settanta con la loro liberazione sessuale, il collegio e la topografia spagnola, la figura del giovane (non ancora trentenne) e già affermato regista. Ma come sempre in Almodóvar non sono i dati reali, cronachistici che gli importano, quanto nascondersi o svelarsi dietro le sue passioni e ossessioni: la cinefilia e «la trasgressione».
In tal senso si può cogliere un massimo di oggettività in film come Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988) e Parla con lei (2002) e un massimo di soggettività in La legge del desiderio e in quest’ultimo. Che, va detto subito, non è all’altezza degli ultimi due suoi film, come se l’urgenza autobiografica troppo diretta e la necessità di trasmodarla fantasticamente gli avessero procurato come un inciampo nell’ispirazione: detto in altre parole, la memoria (il collegio, il suo rituale religioso e le sue amitiès particulères) non riescono a fondersi con il melo e il noir, tra citazione e parodia, della storia.
Va però anche subito ridetto che una certa delusione è compensata da alcuni momenti tra i più belli di tutta la sua opera e da un modo di raccontare e filmare che ti incanta, diverte e commuove, e per l’argomento che senti suo e per la padronanza stilistica cui è arrivato.
Nella parte di Juan si riconosce, bravissimo, Gael Juan Bernal, già interprete del Che Guevara ne I diari della motocicletta, mentre, in una divertente comparsa, ritorna Javier Càmara (Paca nel film), il Benigno di Parla con lei. A una prima parte, dove predomina la descrizione del collegio e dei suoi riti (i canti in chiesa, le punizioni, le preghiere, il gioco del calcio, i bagni) e dei luoghi della liberazione sessuale avvenuta (lo spettacolo delle trans, i gay bar) e della prima agnizione (al paese, a casa della madre) che è la più riuscita, con sequenze di abbagliante bellezza, segue una seconda parte in cui Almodóvar fatica a tenere il congegno, si sperde nella «storiaccia» senza che riesca, qui, a farla in qualche modo levitare, a salvarla con qualcuno dei suoi ingegnosi e poetici «trucchi». Ecco, quel che manca, mentre svolge il suo compito, una trovata, un po’ di poesia, un po’ di trucco. Peccato. Comunque è sempre un grande Almodóvar!
(piero gelli)