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La dea del ‘67

Un giapponese si reca in Australia per acquistare una fiammante auto (una Citroen DS) di proprietà di una ragazza cieca con alle spalle parecchi episodi spiacevoli. Ovviamente i due stringeranno un forte legame, immersi nella vastità del deserto del New South Wales. Colori saturi e nello stesso tempo come impalliditi, che fanno molto Australia o Nuova Zelanda. Montaggio spezzettato che però non scansa i tempi lunghi. Composizione dell’immagine millimetrica, in modo che ogni inquadratura possa sembrare un quadretto (magari di ricordo hopperiano). Personaggi ai margini che cercano la libertà e vogliono chiudere i conti col proprio passato. Gorgheggi musicali tra Lisa Gerrard e pop facile. Dichiarazioni cinefile esplicite. Un compiacimento estetico inarrestabile. Clara Law si conferma uno degli autori più sopravvalutati dai selezionatori dei festival. Dal bruttissimo
The Reincarnation of Golden Lotus
passando per il noiosissimo
Autumn Moon
, Law fa un cinema che non va da nessuna parte e si attorciglia intorno a un formalismo che irrita dopo cinque minuti. Infatti la partenza di
La dea del ‘67
(scritto, come altri suoi precedenti, dall’hongkonghese Eddie Fong, regista del mediocre
Kawashima Yoshiko
e del brutto
The Private Eye Blues
) può incuriosire e frastornare, ma poi il fastidio prevale (e dura due ore). Tanti bei paesaggi, cielo terso, nuvole a grappoli e argomentazioni – tutte superficiali – sull’incesto e l’amore: per un certo pubblico di bocca buona può certamente bastare.
(pier maria bocchi)