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La damigella d’onore

Nantes. Il giovane Philippe (Benoit Magimel), esemplare di uomo comune, perbene e banale, vive in una palazzina periferica con la madre (Aurore Clèment) e due sorelle. La madre, vedova, per arrotondare le entrate fa la parrucchiera in casa, e, ancora giovane, spera di trovare un nuovo partner, nonostante le delusioni. Colui che manda avanti la famiglia è Philippe, con il suo lavoro di stimato responsabile in una società di costruzioni. Si prende a cuore anche della sorte delle sorelle: la più grande non dà preoccupazioni, sta per sposarsi con un impiegato comunale; ma la piccola traligna, è ribelle, fuma e si droga. Al matrimonio della maggiore, Philippe conosce la damigella d’onore dello sposo, Senta (Laura Smet), e se ne innamora. Artistoide, appassionata, libera da ogni remora morale, la ragazza è l’opposto di Philippe. «Tu sei l’uomo della mia vita» gli ripete più volte lei e gli propone, per sancire indelebilmente il legame d’amore, un patto di sangue, come uccidere qualcuno. Philippe a questo punto comincia a intuire che Senta è ben diversa da come gli è apparsa, un’affascinante creatura dal temperamento artistico e un po’ anarchico, in realtà tenera e sola, da proteggere e inserire dentro l’alveo delle regole borghesi. Ma è troppo tardi, la passione lo travolge, cede ai giochi pericolosi della compagna, anche se solo in parte, non fino in fondo.

Quanti film ha girato Chabrol, da quando, nel 1957, con
Le Beau Serge
sdoganava
La Nouvelle Vague?
Il
Mereghetti
ne elenca 45, ma forse sono anche di più. In tutti comunque, anche in quelli meno riusciti, la mano e l’occhio sapientissimi del regista si fanno riconoscere, nell’abile dosaggio di melodramma e di analisi psicologiche, soprattutto delle patologie umane e sociali. Come l’amico Truffaut, anche Chabrol ha per maestro Hitchcock e lo si capisce da come sa costruire le attese, dall’uso della camera in soggettiva e dalla levità nell’affrontare i temi anche più scabrosi.

La damigella d’onore,
presentato al Festival di Venezia del 2004, esce con un anno di ritardo. Eppure è un film notevole, chabroliano fino al midollo e perfetto per tre quarti, con la sua aria dimessa e l’atmosfera di meschina malinconia.

Chabrol è bravissimo nell’insinuare il disagio e la follia, attraverso un crescendo di indizi, che la cinepresa inquadra e sottolinea con abili stratagemmi. Basta notare come si sofferma sulle due case, quella piccolo-borghese di Philippe e la fatiscente villa della ragazza, quasi a voler contrapporre due diversi generi di alienazione. Ovvio che l’introduzione del tema dell’atto gratuito, come l’uccisione di non importa chi, rinvia il film a una larga casistica e tradizione letteraria e cinematografica, che da Nietzsche, a Dostoevskij, a D’Annunzio, a Gide, in discesa per li rami, conduce a
Nodo scorsoio
di Hitchcock, e ai romanzi, spesso tradotti in film, di Patricia Highsmith e di Ruth Rendell, in un progressivo impoverimento a caso patologico.

E infatti è ancora Ruth Rendell a ispirare Chabrol in questo film, ricavato da un suo romanzo, come già il bellissimo

Il buio nella mente
di dieci anni fa. Ma mentre in quest’ultimo la follia delle due protagoniste (le indimenticabili Sandrine Bonnaire e Isabelle Huppert) è inserita in un contesto di riscatto sociale, in una personalissima e sanguinaria lotta di classe, qui rimane un fatto patologico, nonostante i tentativi di dilatarne la connotazione. La colpa è soprattutto della protagonista, personaggio sfocato e generico, di contro alla precisa caraterizzazione di tutti gli altri. Nonostante ciò, sia ben chiaro, il film è avvincente e vale la pena di non perderlo.
(piero gelli)