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La città proibita

La città proibita per antonomasia è, a Pechino, il quadrilatero imperiale, con sullo sfondo il palazzo dei Ming: là Bertolucci nel 1987 diresse L’ultimo imperatore e lì Zubin Mehta con l’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino portò la Turandot di Puccini, nel 1998. Non è uno sfoggio di cultura, tanto è vero che regista della suddetta opera fu Zhang Yimou, allora indimenticabile autore soprattutto di Sorgo rosso (1987) e di Lanterne rosse (1991), mentre questo suo ultimo film La città proibita, con il suo sfarzo coloristico e costumistico fa pensare a sintonie melodrammatiche, dove si intruducono liberamente crudeltà euripidee con nequizie shakespeariane, l’opera di Pechino e un pizzico di Kurosawa.
Proviamo ad accennare alla trama: c’era una volta un imperatore, un’imperatrice e tre figli discendenti, il primo dei quali nato da una prima moglie, poi morta e sempre rimpianta. Dentro un rituale implacabile, che scandisce le giornate regali (ogni volta che le altezze si muovono vengono preceduti da cortigiani e il nome loro annunciato a voce alta) si precisa immantinente il conflitto, atrocissimo: l’imperatrice ama il figliastro e, contrariamente alla Fedra di Racine, l’atto viene compiuto, anche se il primogenito ora vorrebbe non averlo mai fatto. L’imperatore, al corrente di tutto, fa avvelenare a poco a poco la consorte costringendola a bere quotidianamente una pozione medica cui è stato aggiunto un fungo nero, che porta alla demenza e poi alla morte. Ma la prima moglie dell’imperatore, che non è morta, viene allontanata dalla corte per ragioni dinastiche e fatta sposare al medico di corte, avvertendo anche la seconda che il marito cerca di ucciderla. E quest’ultima avverte il secondogenito e suo primo vero figlio che il padre, giorno dopo giorno, l’avvelena un po’, facendo scatenare una guerra che è insieme di vendetta e di successione.
Non dirò come va a finire; certamente in una carneficina sanguinosamente vivace e spettacolare, con i soliti guerrieri che volano e scimitarrano teste come fossero polli. A livello domestico invece, il primogenito, da vero iellato, dopo la matrigna si innamora della figlia del medico imperiale, che altro non è che sua sorella; quindi in poco tempo, prima di tentare di suicidarsi e poi essere ucciso, pratica due incesti: uno leggero, perché la madre è solo matrigna, il secondo invece è proprio grave, perché nell’antichità greca e anche cinese, il non sapere non esclude la colpa.
Insomma, gli ingredienti per il divertimento e la meraviglia ci sono tutti, dalla prima parte sontuosamente ieratica e cerimoniale, alla seconda che vira in chiave di tragedia western alla Kurosawa, ma con troppo cartoon e giochetti computeristici. Così, nonostante la bravura degli interpreti e l’abilità tecnica (o forse proprio per quella), il manierismo di Zhang Yimou si accentua di film in film, facendo rimpiangere lo stupore che si provò ai suoi esordi. Nel film piangono tutti, l’imperatrice e l’imperatore e i tre figli a turno. Ma è un pianto che non passa, come il lamento di Turandot, e lo spettatore rimane insensibile come un’acciuga, tutt’al più un po’ annoiato di tutti quei cadaveri e di tutti quei crisantemi. (piero gelli)