K

King Kong

Carl Denham (Jack Black), regista visionario e personalità ruspante, salpa con troupe al seguito, per l’isola del Teschio, luogo misterioso e di dubbia esistenza. È ossessionato dall’idea di girarvi un documentario. Con lui si trovano anche lo sceneggiatore John Driscoll (Adrien Brody) e la bella attrice Ann Darrow (Naomi Watts). Quest’ultima, una volta giunti sull’isola viene rapita dagli indigeni e offerta in voto a re Kong, un gigantesco gorilla di otto metri, che la porta via e se ne invaghisce. Durante la loro convivenza forzata, Kong la difende da alcuni mostri preistorici e la bella attrice impara a conoscere che il mostro non è tale. Così, quando l’equipaggio riesce a stordire lo scimmione per portarlo a New York come attrazione pubblica, Ann cercherà inutilmente di opporsi. Durante l’esposizione Kong spezza le catene e fugge dal teatro seminando il panico a Manhattan. Si rifugerà sopra l’Empire State Building: lì avverrà la battaglia conclusiva contro gli aeroplani da combattimento inviati ad abbatterlo. Remake a distanza di oltre settant’anni dall’originale di Cooper e Schoedsack, che ha fatto la storia del cinema. Lo sforzo produttivo è imponente, come si conviene per una pellicola del maestro dei kolossal contemporanei, Peter Jackson, autore della trilogia de Il Signore degli Anelli. È il sesto film più costoso della storia del cinema, soldi spesi in prevalenza per l’animazione digitale: la ricostruzione della New York anni Trenta e dei vari mostri disseminati nel film è impressionante. Dietro le movenze dello scimmione si celano il corpo e il volto dell’attore Andy Serkis, che evidenzia del bestione il lato selvaggio e quello umano attraverso la tecnica del motion capture. 

Durante le tre ore del film si alternano molti dei generi antichi e attuali che hanno fatto la fortuna di Hollywood: la commedia brillante all’inizio, sequenze d’azione e di tensione come ossatura del film e diverse scene drammatiche a impreziosire la pellicola, soprattutto verso il finale. Così la dilatazione della durata a quasi il doppio rispetto all’originale del 1933 è giustificata e l’attenzione non cala quasi mai. L’intero film, trattandosi di un remake di una pellicola così nota, assomiglia decisamente a un imponente esercizio di stile. Ma che stile! Vi si ritrova tutto il potenziale immaginifico della Hollywood classica, mescolato con l’epica visiva di quella contemporanea. Hollywood non è morta perché, al di là delle tradizionali e comprensibili critiche che le si muovono, è in grado a distanza di settant’anni di realizzare film come questo, che svelano l’uniformità storica dello spirito di quest’industria. A Hollywood hanno sempre saputo come fare cinema d’intrattenimento. Si può discuterne finché si vuole, ma la competenza industriale degli studios californiani – più che la loro sensibilità artistica – è perfettamente intatta.
Un applauso va agli attori, che recitano bene e in condizioni non facili: quasi mai si trovano davanti la realtà che sarà poi rappresentata sullo schermo: King Kong è Serkis con dei sensori addosso; il mare la foresta, la New York anni Trenta sono dei teatri di posa o addirittura spazi vuoti in attesa della realizzazione digitale. Ma l’applauso più grande torna indietro all’originale del 1933: è merito di quel soggetto se ancora oggi possiamo vedere concentrati tanti grandi temi dell’immaginario contemporaneo nel remake di Jackson. Lo scontro fra natura e civiltà, l’amore (e l’erotismo!) impossibili, la riflessione sulla macchina schiacciatutto dello spettacolo.
Tanti ingredienti dosati bene. Un film che va visto, anche solo per parlarne, a meno che non si sia gravemente insofferenti verso Hollywood. In questo caso è meglio rivolgersi alle cineteche d’essai, dove si respira un’altra aria. Ma la fusione fra uno dei grandi classici di sempre e l’occhio di uno dei grandi registi della visionarietà contemporanea frequenta la mitologia del cinema. Almeno di quello prodotto in catena di montaggio. (stefano plateo)