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K-PAX – Da un altro mondo

Alla Grand Central Station di New Yok durante una rissa si materializza un uomo con gli occhiali scuri. La polizia lo ferma e lo porta in manicomio. Dice di essere Prot (Kevin Spacey) e di venire da K-PAX, un pianeta a mille anni luce dalla noi. È arrivato sulla Terra su un raggio di luce per studiare la popolazione del pianeta BA-3… Lo cura il dottor Mark Powell (Jeff Bridges), il direttore della clinica psichiatrica di Manhattan che si appassiona al caso. Prot è gentile, calmo, buono, simpatico, soprattutto lucido. E porta sempre quegli occhiali scuri perché non tollera la luce. Gli altri pazienti lo ascoltano, seguono i suoi consigli, sperano di ritornare con lui su K-PAX. Perché Prot è qui provvisoriamente, in attesa di tornare il 27 luglio sul suo pianeta dove la famiglia non esiste, dove far l’amore è doloroso… Il dottore scava nel caso. Gli fa anche trascorrere una giornata con la sua famiglia, lo fa analizzare da un gruppo di scienziati che restano di sasso di fronte alle sue nozioni astronomiche, lo sottopone a ipnosi e scopre che quell’alieno è solo un uomo che ha subito una tragedia ed è un evidente caso di sdoppiamento della personalità…

Tratto dal romanzo di Gene Brewer,
K-PAX
parte da una premessa non originale (il matto che si crede un alieno e che viene a studiare gli umani), eppure la storia regge: anzi quel matto che divora la frutta (bucce di banane comprese) e che prende appunti in una strana grafia sembra proprio un extraterrestre che viene qui a farci riflettere su noi stessi. Fino a quando la terapia del dottor Powell non svolta con l’ipnosi, resta il dubbio che Prot venga davvero da K-PAX e che questa sia un’altra bella favola hollywoodiana. La realtà è diversa. Il regista inglese Iain Softly (
Le ali dell’amore
) è riuscito a non scadere nel melodramma (con qualche perplessità sulle scene finali) e nel patetico lacrimoso. Lasciando anche un finale non definitivo. Il messaggio è comunque chiarissimo: non c’è tempo da sprecare nella vita, meglio rendersi conto subito delle cose che contano, perché si può perdere tutto in un lampo. E allora il dottore ripenserà al suo rapporto assente con moglie (una brava Mary McCormack) e bambine e alla totale mancanza di dialogo con il figlio maggiore al college. Bella e curata la fotografia con efficaci giochi di luci e ombre che avvolgono i protagonisti (accattivanti anche gli scorci di Manhattan al di là del manicomio e splendido il New Mexico della parte finale). Strepitoso, come sempre, il pluridecorato agli Oscar Spacey (statuetta come migliore attore in
American Beauty
e come attore non protagonista ne
I soliti sospetti
), perfetto folle con i tic e gli atteggiamenti del malato, ma mai esagerati. Bravo anche Bridges nella parte del razionale psichiatra costretto dall’alieno a riconsiderare la sua vita affettiva. E per una volta nella storia del cinema il manicomio è visto come un ambiente quasi sereno, senza troppe violenze. Il film, che negli Usa è stato giudicato come un remake (o addirittura plagio) della pellicola argentina
Man Looking Southeast
del 1986, ha sbancato il botteghino nelle prime settimane di programmazione.