I

Il tempo dei lupi

Giunta nella sua casa di villeggiatura, una famigliola borghese la trova occupata da sconosciuti, che subito uccidono il padre. Per la madre (una Huppert sottotono) e i due figli comincia così un’odissea surreale in una campagna che, colpita da un inspiegabile disastro, sembra ritornata all’anno zero (mancano acqua, cibo, luce e trasporti). Approdati in uno scalo merci abbandonato, che ospita altri «superstiti», i tre sopravvivranno con un’umanità espropriata di sé, nell’attesa collettiva di un fantomatico treno che li porti via.

Dopo una partenza analoga al suo
Funny games
(la serenità familiare spezzata dalla violenza di intrusi), questa volta Haneke sceglie di mirare alto e mettere in scena (si è forse ispirato come metafora e idea di fondo al romanzo
Cecità
di Saramago?) quel che resta dell’uomo in un mondo da «day after». Ma le premesse non vengono sviluppate, perché non basta adottare il punto di vista degli oggetti e della natura indifferente, o descrivere con crudezza l’abbrutimento sociale nel crollo dell’ordine, quando sono in ballo i grandi temi morali e filosofici di simili tragedie. Il rischio è che i personaggi risultino senza spessore e, pur nell’assurdità della storia, senza credibilità. Così il film finisce per sembrare l’osservazione «neutrale» di un esperimento antropologico non riuscito. Lo conferma il finale aperto, spiraglio di speranza per lo spettatore, ma che sa di escamotage, usato dal regista per sbrogliare una matassa che non sapeva più come trattare. Estraniante e solo per volenterosi.

(salvatore vitellino)