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Il regista di matrimoni

Si può amare un film anche di fronte ogni logica obiezione, seguirne le immagini con crescente irritata ammirazione o ammirata irritazione, a seconda del prevalere dell’uno o dell’altro stato d’animo? Sì, se si tratta di un film di Marco Bellocchio, a cui è stato concesso un credito illimitato da quando, nel 1965, esordì nel lungometraggio, con quei Pugni in tasca che stupì e commosse.
Da allora però ha altalenato pericolosamente tra film in cui il grottesco poetico investito di rabbia di quel capolavoro riusciva a catalizzarsi in un risultato notevole (Nel nome del padre, Marcia trionfale, Salto nel vuoto, Gli occhi,la bocca, L’ora di religione) ad altri di sconsolata irrealizzazione, malati di infantilismo e velleitarismo, di cui molti critici hanno accusato anche il sodalizio con lo psicanalista Massimo Fagioli.
Ma veniamo a questo Regista di matrimoni, che raccontando la crisi di un «maestro» celebre sviluppa e intreccia in soggettiva tre storie, dove la soggettiva appunto dovrebbe servire a coagulare il tutto. Il regista Franco Erica (Sergio Castellitto) assiste allibito al matrimonio neocatecumenico della figlia, evidentemente angustiato da quella scelta e da quella fastidiosa ritualità. In più sta girando, probabilmente per motivi economici, l’ennesima versione dei Promessi sposi, ma nella fase preparatoria, gli studi vengono visitati dalla finanza e lui è inquisito ingiustamente di violenza carnale. Fugge in Sicilia, in uno scenario di mare stupendo tra Cefalù e Palermo e lì, mentre si aggira meditabondo sulla spiaggia, osserva un regista di matrimoni, Baiocco (Bruno Cariello), che riprende una coppia di sposi e relativi parenti. Viene riconosciuto con devota ammirazione dal registello che gli chiede come lui, maestro, girerebbe una scena così necessariamente bloccata nell’ovvietà del rito.
Questa prima scena di matrimonio non è che il preludio a un’altra, che nascerà in seguito. Perché Erica, ospite del nuovo amico e di sua moglie, conosce il principe di Gravina, interpretato magnificamente da Samy Frey (quanto mutato dai tempi Godard!). Il principe che abita la splendida villa Palagonia invita Erica, che ha conosciuto tramite Baiocco, a girare il film delle nozze della figlia Bona (una splendida Donatella Finocchiaro). In realtà, il principe, completamente spiantato per motivi di gioco, obbliga la ragazza a un matrimonio di convenienza con un giovane e spettinato avvocato, rampollo di una ricca famiglia locale vagamente mafiosa; come nei Promessi sposi ci sono «bravi» che seguono il regista; e fanno bene, perché questi s’innamora, contraccambiato, della bellissima principessa triste e fa di tutto per buttare all’aria le nozze.
Tutta questa storia è condotta con una visionarietà fiabesca, intrisa di una levità grottesca dai tocchi felliniani, che altro non è che la proiezione in soggettiva libera di un possibile film futuro. Tanto è vero che il finale lascia aperte tre soluzioni, ipotesi da mise en abyme godardiana molto pericolosa oggi in tempi di banali telefiction; anche se l’immagine di chiusura, del regista in treno, solo, che se ne torna «in continente», dovrebbe bastare a far capire che ogni spettatore può scegliersi la sua, di fine: quella trucida del padre che uccide lo sposo, quella fiabesca del regista che scappa con la principessa, o quella realista, flash di immagini filmiche in fieri.
Se il film fosse restato in questi due binari, tra il fiabesco lirico e decantato, un po’ alla Anna Maria Ortese (anche se qui siamo in Sicilia e non a Napoli) e tra la parodia e l’ironia grottesca di un regista ormai fuori gioco, Bellocchio avrebbe scritto uno dei suoi film più belli e intelligenti. Purtroppo a questi due temi ne ha aggiunto un altro, carico di messaggio e di rabbia pochissimo sopita e molto vociferata, affidata a un regista amico/nemico Smamma (Gianni Cavina), che si finge morto in un incidente stradale perché il suo film, appena terminato, possa vincere l’ambito premio «David di Michelangelo», il che rigorosamente avviene. «Perché in Italia contano le pastette politiche di centro e di sinistra», blatera il morto redivivo, «perché in Italia comandano solo i morti». Leit-motiv, quest’ultimo, che ripete al regista anche il principe di Gravina.
A parte che l’esplicito messaggio puzza di personali incazzature, è anche fuori tono in un film così risolto in visionarietà polivalente, più adatto a un Nanni Moretti – così poco regista e così tanto promotore di se stesso come faro di impegno politico e saggezza generazionale – che non a Marco Bellocchio, cui riconosciamo, nella sua lunga carriera così coerente con i suoi desideri di artista, la capacità di rendere in immagini i malesseri e i fantasmi della realtà d’oggi, privata e pubblica; e perfino la perspicacia di raccontare la sensazione o consapevolezza di sentirsi un sopravvissuto, senza bisogno che un alter-ego posticcio infantilmente banale le verbalizzi. (piero gelli)