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I giorni dell’abbandono

Olga (Margherita Buy), donna ancora giovane e soddisfatta di sé viene improvvisamente lasciata dal marito, Mario (Luca Zingaretti). Di colpo la sua vita protetta e scorrevole si sfalda. Il tormento si porta via giornate e poi mesi senza che la donna riesca a elaborare una via d’uscita. La sua stessa vita privata si destruttura, il rapporto con i figli si irrigidisce, il lavoro scivola via. La scoperta dell’identità della giovane amante di Mario sarà solo un passaggio del suo confuso percorso. Che toccherà anche la porta di un vicino di casa (Goran Bregovic), musicista di buoni e timidi sentimenti, forse troppo inconsistenti per Olga.

Il romanzo di Elena Ferrante, da cui è tratta la pellicola, non ammette scuse. Non per il lettore, che per seguire il racconto ha l’unica possibilità di arrotolarsi nei pensieri alterati e cupi della protagonista, abbandonandosi alle spirali della sua psiche ferita. Non per il regista, che volendo affrontare un romanzo di pensieri e atmosfere così rarefatte, sa di porsi un compito rischioso come pochi. L’astrazione della parola che può attingere all’astrazione del pensiero, in confronto con la concretezza e l’obiettività rappresentativa della macchina da presa. Roberto Faenza, autore di regia e sceneggiatura si è trovato alle radici di questo conflitto espressivo.

La sceneggiatura frequenta il romanzo in maniera abbastanza fedele, pur operando inevitabili selezioni. Scene e dialoghi sono spesso riportati in modo accurato, ma la scioltezza stilistica e la densità delle immagini create da Elena Ferrante non possono essere inseguite da Faenza, che si ritrova spesso nudo nell’evocazione di certe atmosfere. Così a tratti la sceneggiatura suscita una comicità involontaria. Qua e là Faenza cerca di rivendicare il ruolo proprio e del cinema, attraverso soluzioni visive brillanti, talvolta efficaci. Ma è un terreno diverso da quello sottile e scivoloso dei pensieri e delle emozioni ferite della protagonista, che sono l’architrave del romanzo. E similmente Faenza cambia gioco quando alleggerisce il tono con tocchi di voluta comicità. Anche qui il regista si scosta dallo stile senza tregua della Ferrante. Forse la chiave, constatata l’impossibilità di seguire il romanzo sul suo terreno, sarebbe stata quella di scegliere fin dal concepimento un taglio interpretativo più netto, al limite più coraggioso.

Margherita Buy è comunque efficace in un ruolo spinoso e riesce spesso a superare le difficoltà che la sceneggiatura le pone. Una donna normale che improvvisamente diventa controversa protagonista di una quotidiana e tragica storia. Tutto lo spaesamento possibile all’interno di un racconto di formazione, o piuttosto di deformazione. Il coinvolgimento emotivo che scaturisce dal personaggio le deve molto. Anche Zingaretti colora bene il suo personaggio: un uomo mediocre, di particolare insipienza morale. Né l’incompiutezza del film va addebitata alla svagatezza romantica e troppo fragile di Bregovic o allo spaesamento (anche interpretativo?) di Gaia Bermani Amaral. C’è poco di recitativo o di tecnico cui addebitare le perplessità su questo film.

Forse si è semplicemente osato troppo. Il romanzo di Elena Ferrante può essere discusso, ma tocca corde della sensibilità femminile – e non solo – che non è frequente vedere restituite in modo così acuto e intenso. Faenza deve appoggiarsi alle parole del romanzo, che sono infatti spesso riprese dalla voce narrante nel corso del film. Ma non basta. Non tutto è traducibile, sempre. Allora forse, anziché mimarne la poesia si sarebbe potuto provare a raccontarlo in prosa, attraverso un’altra chiave di lettura, o almeno un’altra visuale. O troppo o troppo poco. Ma poche volte come in questo caso la misura giusta era proprio quella del romanzo.
(stefano plateo)