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I diari della motocicletta

Nell’estate del 1952, due giovani di Buenos Aires, decidono di partire in motocicletta, in una malmessa Norton 500 che ben presto li lascerà appiedati, per un grande giro in tutta l’America Latina: attraverseranno l’Argentina, il Cile, il Perù fino a Cuba. Sono animati dalla passione tutta giovanile per il viaggio, un viaggio che li porterà tra genti e luoghi diversi, dalla pampa alle altezze del Machu Picchu, tra le meraviglie della misteriosa civiltà Inca: «Gli Inca conoscevano l’astronomia, la medicina, ma non avevano le armi come i conquistadores. Come si sarebbe evoluta questa terra se non fossero stati annientati?» – si chiedono i due giovani commossi. Il viaggio diventerà una vera e propria presa di coscienza politica, nell’acquisizione delle ingiustizie sociali, della miseria, della malattia per povertà, dell’unità nella diversità etnica di tutto il popolo latino-americano. Del resto i due giovani sono Alberto Granado (Rodrigo de la Serna) ed Ernesto Guevara (Gael Garcia Bernal), trentenne il primo, di sette anni più giovane e prossimo alla laurea in medicina il secondo. Un
Che
preiconico, ancora confuso per il suo avvenire, se non in una vaga aspirazione a fare qualcosa di utile per gli altri.

Intelligentemente il regista Walter Salles, che nell’ultimo istante del film inquadra come è oggi a Cuba il sopravvivente Granado, un simpatico cartapecorico ottantenne, non ci mostra nessuna delle sfruttate immagini del Guevara sessantottino e post: il
Che
ancora non c’è. Un merito per lo meno commerciale (e il produttore Robert Redford deve aver contribuito in tal senso) è quello di aver costruito questo road movie sudamericano ricco di istanze politiche «estreme», senza calcare troppo le tinte della denuncia rivoluzionaria, lasciandola emergere come afflato romantico nella sensibilità dei due giovani. Così il film è, soprattutto nella prima parte, un divertente excursus di avventure di viaggio, tra incidenti di motocicletta, incontri di ragazze, fughe precipiti e penuria di soldi. E lentamente, tra il susseguirsi di episodi divertenti, affiora come una nebulosa la volontà dell’impegno sociale. Per cui il film diventa, con un garbo che ne costituisce anche il limite, quello che in narrativa si chiama Bildungsroman, ovverosia romanzo di formazione, e riesce a conservare il fascino ingenuo dei «taccuini di viaggio di Che Guevara», da cui è tratto.

Questa leggerezza di tocco, che si traduce nella scelta delle immagini e degli episodi tutti linearmente colti, si chiude con l’evento conclusivo più determinante, la visita e il soggiorno dei due giovani tra i pazienti di un lebbrosario. Qui, a contatto con la dolcezza dei malati e il loro isolamento – il fiume separa i sani dai malati – il giovane Ernesto non sa più cosa fare, se laurearsi in medicina o prendere un’altra strada, quella che conosciamo e che il pistolotto politico ai malati ci indica. Purtroppo questa parte finale è anche la più debole del film perché il regista, che sapevamo altrove molto caramelloso
(Central do Brasil),
esagera nell’agiografia e finisce per costruire un’immagine del giovane Guevara come un santino o una figura della propaganda di regime: lui che si prodiga per tutti, guarisce i malati, li raggiunge a nuoto nonostante il suo asmone e incanta tutti con la sua bontà e schiettezza, perfino le suore reazionarie. Disumano, troppo disumano.
(piero gelli)