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Hostel

Hostel è quel genere di film che appartiene all’horror realistico ed ha il suo capostipite nel celebre
Non aprite quella porta
di Tobe Hooper e relativi sequel . Naturalmente il genere in sé viene da più lontano, come ogni spettacolo che vuole suscitare gli istinti più biechi della natura umana. Sulle pulsioni sadiche insite in ognuno di noi nacque a Parigi nell’Ottocento il teatro del Grand-Guignol, i cui effettacci divertivano-spaventavano l’ingenuo spettatore d’allora. Oggi ci vuole altro: uno naviga
su Internet e le efferatezze più gustose sono alla portata di tutti, a sentire
le dichiarazioni del regista, Eli Roth, alla seconda sua prova dopo un
Cabin
Fever

a detta di molti piacevolmente disgustoso. In questo film, invece, all’horror realista viene accoppiato il genere sessual-demenziale, senza riuscire a unificare i due aspetti.

La prima parte del film si dilunga sulle avventure facili di tre giovanotti coglioni, due americani e un islandese raccattato per strada. Costui è ancor più cretino e irresponsabile, è sposato e ha una figlia piccina, ma scopa come un micco qualsiasi cosa gli capiti davanti. Questi sparisce per la gioia dello spettatore, e si viene poi a sapere che è stato decapitato. I ragazzi sono in vacanza per l’Europa, un viaggio turistico-sessuale, con le capitali d’obbligo della droga e del sesso.

Mentre si trovano ad Amsterdam, in partenza per Barcellona, un losco figuro da cui guardarsi come dalla rogna li convince a
cambiare itinerario mostrando loro, sul suo telefonino, ragazze assai promettenti. «Andate a Bratislava, in Slovacchia; lì turismo scarso e
ragazze a bizzeffe e pronte a tutto». Leccandosi i baffi, i tre creduloni
partono per la cittadina del bengodi. Qui mi fermo, per non togliere il piacere
a chi andrà a vederlo, di godere delle orribili vicende cui andranno
incontro i giovani, perché in città capitano nella rete di un’organizzazione di
pervertiti sadici, che a pagamento si divertono a uccidere giovani ragazzi e
ragazze, seviziandoli, stuprandoli, tagliandoli a fette, oppure
accecandoli e via di seguito. Tra le urla e la disperazione che lasciano
insensibili solo il regista e il suo produttore, l’ineffabile Quentin Tarantino,
noto per il suo spirito umanitario. Infatti, secondo le dichiarazioni del regista
e del suo amico Tarantino, innamoratosi «pazzamente» del soggetto, il messaggio del film è la denuncia del turismo sessuale e del traffico d’organi. Ma che cari!

Comunque, all’organizzazione sembra appartenere l’intera città, polizia
compresa, perché il protagonista che si salva (Jay Hernandez) riuscirà a salvarsi sfuggendo a tutti i controlli e a vendicarsi rendendo pan per focaccia, o meglio dito tagliato per dito tagliato. Sono stato qualche
anno fa a Bratislava, cittadina deliziosa e un po’ triste ma
tranquilla, ai confini dell’Austria. Non mi sono mai accorto di nulla e, se
fossi il console della città o l’ambasciatore della Slovacchia invierei una
indignata protesta al collega statunitense per illazioni così pesanti.

Scherzi a parte, il film assembla parolacce su parolacce, scene su scene di
erotismo soft, efferatezze su efferatezze, senza riuscire a provocare la minima
reazione, se non quella di un giusto stupore: ma si può essere più canaglia e in
malafede di Roth e di Tarantino e non essere nemmeno capaci di costruire
un intreccio che per lo meno funzioni?
(piero gelli)