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Dies Irae

Danimarca, 1623. La moglie di un pastore si innamora del figliastro e viene denunciata dalla suocera per stregoneria. Quando scopre di non essere più amata, accetta l’accusa e viene arsa viva. Uno dei vertici dell’arte dreyeriana, e non solo per la straordinaria ricchezza figurativa erede della pittura fiamminga. Ancora oggi il film è davvero appassionante, senza niente di programmatico o frigido. I volti dei personaggi, delle donne soprattutto, rimangono stampati nella memoria; la scena-clou della confessione della presunta strega è uno dei pochi momenti di cinema accostabili all’idea artaudiana di crudeltà. Ma Dies Irae è anzitutto un capolavoro di ambiguità: lontanissimo dalla denuncia dell’oscurantismo, Dreyer mette in gioco forze e pulsioni che riguardano la debolezza umana, la seduzione del Male, l’intolleranza, l’erotismo. Con una densità degna di Hawthorne e mai eguagliata al cinema. (emiliano morreale)