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Denti

Sergio Rubini ha due incisivi enormi e una compagna bella e aggressiva che, nel corso di una lite, si premura di spezzarglieli. La peregrinazione da un dentista all’altro alla ricerca di un rimedio si trasforma in un viaggio allucinato alla ricerca della felicità e di una nuova vita. Come al solito, con Salvatores, ci si ritrova alle prese con un film e un cineasta divisi da una profonda incomprensione. Da un lato il regista profondamente legato agli anni Settanta (Procol Harum & co.), dall’altro l’intellettuale che tenta in tutti i modi di sintonizzarsi sulle nuove emergenze tecnologiche e linguistiche. In mezzo, un vuoto pneumatico di idee che un florilegio di stili non riesce a nascondere: anzi denuncia crudelmente. Ma poi, nella vicenda odontoiatrica del film, qualche idea potrebbe pure esserci. Salvatores intuisce che il cinema che conta oggi si gioca tutto sulla sparizione del campo: sull’immanenza dell’immagine autosufficiente e senza profondità, sull’abolizione del fuori-campo. E fin qui ci siamo. Salvatores intuisce gli snodi cruciali del raccontare per immagini oggi. Sa come manipolare suoni e montaggio, anche se il prologo (in perfetto stile
Pink Floyd Live at Pompei
) dice tutt’altro sul Nostro… Ma, come ogni buon contenutista della sua generazione, non riesce ad accettare la libertà che il vuoto necessariamente comporta. Salvatores, insomma, non riesce a far cinema dopo «la morte del cinema» e quindi si aggrappa inutilmente alla parola nella sua forma più deteriore: la sceneggiatura.
Denti
, invece di inebriarsi del nulla che lo costituisce e che solo avrebbe potuto salvarlo, arretra terrorizzato e cerca redenzione in un inquietante psicologismo d’accatto (viva la mamma…). Errore di prospettiva e di metodo. Il flusso visuale post-cinematografico, infatti, non è l’equivalente del flusso di coscienza di Joyce, di Svevo, di Musil. Non basta smontare la linearità della narrazione per ritrovare la vertiginosa profondità della parola-sonda che rivela mondi e sentimenti. La contraddizione di
Denti
, film di pure superfici, è di voler annullarsi in una parola in grado di orientare il flusso delle immagini. Il suo fallimento è tutto racchiuso in questo cortocircuito: la parola non può redimere l’immagine e l’immagine ormai viaggia senza la parola. In questo senso, la letteratura del Novecento non solo ha anticipato il cinema, ma si è spinta in regioni che sono e saranno sempre restie al
visuel
. Al cinema (quel che ne resta…), per trovare una nuova forma di verginità linguistica, non rimane altro che dover giocare con i simulacri della propria finitezza. Salvatores invece continua a parlarci di corpi addirittura pre-cinematografici, con un linguaggio che invece si vorrebbe giunto alla fine stessa delle immagini.
(giona a. nazzaro)