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Dark Water

Dahlia (Jennifer Connelly) è in causa con l’ex marito per l’affidamento di Cecilia (Ariel Gade). In cerca di una nuova sistemazione per sé e la figlia, trova un appartamento piccolo e malridotto in un palazzone di Roosvelt Island, isoletta degradata di New York. Nella casa cominciano a verificarsi strani episodi, dapprima marginali, poi sempre più inspiegabili e inquietanti. Mentre cerca di rimettere assieme la sua vita, Dahlia si trova a lottare con alcune difficoltà impreviste e inquietanti, che presto trascendono in un cortocircuito fra quotidiano e sovrannaturale.

Remake di un film giapponese diretto da Hideo Nakata e tratto da un racconto di Koji Suzuki (collaboratore dello stesso Nakata ai tempi di
The ring). Dark Water
racconta l’orrore della quotidianità, i fantasmi che scaturiscono dalle difficoltà della vita. Agli autori interessa il rapporto genitori ? figli: i fantasmi sembrano la materializzazione spettrale delle ansie e degli irrisolti prodotti da storie di vita più che tormentate. L’abbandono dei figli da parte dei genitori è la matrice dell’orrore. Non solo, il contesto urbano, alienante e misero come spesso è nella periferia delle grandi metropoli, partecipa della costruzione dell’orrore e lo dilata. L’isolamento degli individui e lo squallore degli ambienti diventano ossessione e tracimano nel paranormale. Come le menti dei protagonisti, costretti a una dolorosa spola fra la lucidità e la perdita di sé.

Walter Salles (Central do Brasil e

I diari della motocicletta)
è alla sua prima prova col genere horror, oltre che all’esordio in una produzione hollywoodiana. La regia, aiutata da una fotografia livida, è piuttosto riuscita nella costruzione delle scene di tensione. Ma il risultato complessivo non spaventa veramente. Si tratta di variazioni condominiali sul tema della casa stregata: ascensori incantati, voci lontane, appartamenti abitati da presenze, un custode inquietante. Anche il leit motiv dell’acqua scura che filtra dai soffitti è a suo modo già visto, o diviene quasi comico in alcune situazioni.
The Ring
è un’altra cosa, ma non era questo l’intento di Salles.

Ciò che funziona bene, invece, è la fusione fra la dimensione dell’orrore quotidiano e quello sovrannaturale. I due piani sono risolti con coerenza e ritmo dalla sceneggiatura. Jennifer Connelly dà una buona prova di sé, ma impressionano per bravura le due bambine, Ariel Gade e Perla Haney-Jardine. In realtà, tutto il cast è ben scelto per rappresentare i volti della periferia geografica e umana, dal portinaio, al signor Murray, fino all’avvocato Platzer che nasconde sotto barba e occhialoni il volto consolante di Tim Roth. Oproprio questa umanità provata dalla vita che, intrecciandosi con le storie di Dahlia e Cecilia, dà spessore umano al racconto.

Un film, dunque, che non riesce a regalare una vera tensione, ostacolato com’è dalla ripetitività dei
topoi
dell’horror qui sfruttati. In questo senso la confezione e il lancio del film rischiano di richiamare una tipologia di spettatori che resterebbe delusa. Ma il valore di questa pellicola risiede nella capacità di tessere le ansie individuali con la manifestazione dell’orrore e di legare questi ultimi al contesto urbano. L’esito è la nobilitazione (relativa) di una pellicola che frequenta l’horror tradizionale riuscendo a raccontare frammenti di disagio contemporaneo.
(stefano plateo)