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Caterina va in città

Settembre 2002. La famiglia Iacovoni, Giancarlo, Agata e la figlia Caterina, si trasferisce a Roma da Montalto, paesino della provincia laziale. Tutti e tre vivranno una piccola rivoluzione. Giancarlo, insegnante di ragioneria, vuole uscire dall’anonimato e sfondare come scrittore. Per questo spinge la figlia a frequentare compagne di classe appartenenti a famiglie influenti. Caterina, tredicenne con la passione per il canto polifonico, si trova così catapultata nel mondo di Margherita, piccola leader di sinistra, figlia di una scrittrice e di un intellettuale. Poi partecipa alle feste esclusive di Daniela, figlia di un politico della maggioranza di governo. Anche Agata, nel suo piccolo, vivrà un grande cambiamento, trovando in un altro uomo l’attenzione e la gioia che il marito, troppo occupato ad inseguire sogni di gloria, le nega.
Paolo Virzì rispolvera il canovaccio usato per tutti i suoi precedenti film: quello dell’incontro-scontro tra mondi diversi. Da una parte la gente cosiddetta normale e dall’altra i privilegiati: politici, scrittori, vip. Gli eletti e gli esclusi. Da un lato l’ambiente ricco della nuova destra al governo e quello degli intellettuali di sinistra, girotondisti e un po’ snob. Dall’altro la famiglia Iacovoni: Caterina, che vuol vedere tutti felici; Agata, che desidera una vita semplice e Giancarlo che non ci sta e vorrebbe stare tra gli eletti. Imbarazzante, ingombrante e senza talento, finirà per ammalarsi di depressione. La moglie e i parenti burini di Montalto, ha detto lo stesso regista, sono invece parte di un’Italia ancora pura, che non mira a diventare famosa. In “Ovosodo,” il protagonista trovava la felicità facendo l’operaio in una fabbrica e mettendo su famiglia. Qui il messaggio è simile: meglio coltivare il proprio orticello che cercare di entrare in un mondo che non è il proprio, perché ci si scotta e si finisce per soffrire. Troppo buono questo Virzì. Predica la grazia e l’innocenza, racconta la genuinità delle borgate, ma dal suo film emerge lo snobismo di una sinistra che ha perso il contatto con la gente, oltre che le elezioni. Gli attori sono bravi, Castellitto su tutti, e la giovane protagonista Alice Teghil è una bella sorpresa. La storia però è troppo piena di cliché. Una commedia di buon livello, divertente in molti punti ma troppo simile ai precedenti capitoli della filmografia del regista. (francesco marchetti)