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Camminando sull’acqua

Secondo Eytan Fox, regista di questo interessante e avvincente
Camminando nell’acqua,
gli israeliani sono ancora ossessionati dalla Shoah, anche se nel film questo tema mi pare più un pretesto per illustrare ben altro; non per nulla i protagonisti sono due giovani più o meno trentenni, con turbamenti più esistenziali che storico-politici.

Eyal (Lior Ashkenazi) è un agente speciale del Mossad. All’inizio lo vediamo abilmente uccidere con una siringa piena di un fulminante veleno un arabo in vacanza con moglie e figlio. Di ritorno a casa scopre che la moglie, depressa, si è uccisa. Eyal ne è profondamente scosso. Il suo capo (Gideon Shemer), un vecchio amico di famiglia, se ne accorge e gli affida un incarico meno importante, più collaterale: cercare di sapere se un vecchio ufficiale nazista emigrato in Argentina è tuttora vivo.

La nipote del nazista, Pia (Carolina Peters), vive in un kibbutz in Israele e sta per ricevere la visita di suo fratello Alex (Knut Berger), in partenza da Berlino. Eyal si fingerà guida turistica per entrare in contatto con i due giovani tedeschi. Piano piano si appassionerà all’incarico, dapprima visto come un ripiego: non solo perché certe verità vengono fuori attraverso colloqui carpiti surrettiziamente ai due fratelli ma anche perché l’atteggiamento aperto, sincero e spregiudicato di Alex riuscirà in qualche modo a sciogliere l’introversione ossessiva dell’israeliano. In giro per Israele, da Gerusalemme al Mar Morto, i due giovani, così diversi, avranno modo di conoscersi e confrontarsi: la disponibilità di Alex contro i pregiudizi di Eyal. Alex è un omosessuale che non nasconde le sue preferenze. Eyal dapprima ne è irritato, poi incuriosito: di una curiosità sospetta. Eyal partirà per Berlino, per terminare l’incarico ma felice anche di poter ritrovare l’amico.

La seconda parte del film, quella berlinese, risolve in maniera sorpendente e intelligente il problema, ma è una soluzione che non può essere rivelata per non togliere la sorpresa. Il meglio del film consiste soprattutto nel gioco di specchi che si instaura tra i due giovani, il confronto tra due mentalità, la cui diversità è soprattutto un portato sociale. La liberalità di Alex non deriva soltanto dalla sua diversità, che del resto nell’ambiente in cui vive non costituisce più un grosso problema, ma è il frutto di un società affluente, occidentale, che «globalmente» ha risolto alcuni problemi, per semplificare, di acculturazione psicologica e antropologica; mentre la durezza della vita in Israele, la guerra continua, il nemico sempre più insidioso in casa non permettono la stessa maturazione, anzi attuano una sorta di rovesciamento: da oppressi gli israeliani inavvertitamente diventano oppressori. Il messaggio è chiaro e venendo da un regista israeliano tanto più apprezzabile poiché trasmesso attraverso sequenze narrative di grande impatto emozionale, anche se venate da un eccesso di sentimentalismo che ne attenua l’efficacia. Certi dettagli poi sono inaccettabili, per convenzionalità opportuna, come l’ambiente del Mossad, alcune sequenze di vita omosessuale. L’ultima sequenza poi, a mo’ di epilogo, che intende chiudere il film, con una sorta di inopportuno happy-end hollywoodiano, è davvero inattesa, sbagliata, appiccicata lì, forse per timore di aver osato troppo, in terra biblica!
(piero gelli)