B

Beloved – L’ombra del passato

Il successo non paga a Hollywood, e non pagano i crediti acquisiti al box office. Se così non fosse non si spiegherebbe diversamente l’incredibile sorte dell’ultimo lavoro di Jonathan Demme, Beloved , tratto dall’omonimo romanzo di Toni Morrison vincitore del premio Pulitzer. Il film, vecchio ormai di due anni, è stato un flop colossale negli Stati Uniti, tanto che in Italia – dopo essere stato annunciato nei listini della Buena Vista – non è mai stato distribuito nelle sale, né con ogni probabilità uscirà mai per l’home video. Paradossalmente, questa recensione è resa possibile unicamente dal fatto che Beloved viene programmato in esclusiva assoluta, a partire da questo mese, su Tele+. E pensare che Jonathan Demme, accingendosi a girare questo film fluviale, realisticamente denso e inquietante, era reduce da due enormi successi commerciali planetari e vincitori di numerosi premi Oscar: nientemeno che Il silenzio degli innocenti e Philadelphia. Certo, Beloved, pur potendo contare sul richiamo di un celebre romanzo di partenza, non è uno di quei film che corre incontro al pubblico o che il pubblico può accogliere a braccia aperte. Demme impone un cast tutto di attori di colore e la stessa major che l’ha prodotto – la Buena Vista – sembra fare di tutto perché il film vada incontro a un insuccesso. La vicenda comincia nel 1865, con una serie di manifestazioni sovrannaturali nella dimora di Sethe: una donna di colore che, stabilitasi nell’Ohio dopo essere sfuggita a una famiglia di schiavisti del Kentucky, convive con lo spirito di una figlia morta, un’anziana madre, due figli maschi che alla prima occasione se la danno a gambe, un cane e la seconda figlia, terrorizzata e isolata da tutti a causa di questa situazione paradossale. Dopo sette anni si fa vivo un vecchio amico della donna, Paul, che vorrebbe stabilirsi lì e diventare il suo uomo, anche a costo di dover tenere testa alla presenza sovrumana che alberga nella casa.
Si tratta di un’opera difficile, attraversata com’è da una tensione metafisica che già dalle prime sequenze l’autore restituisce con accentuazioni orrorifiche esplicite, scarti visivi forti e indecifrabili e certamente inopportuni per un dramma in costume sull’apparente falsariga de Il colore viola di Spielberg. È chiaro che occorre leggervi dell’altro, a partire da segnali di un discorso politico militante sulla persistenza della questione razziale nell’America contemporanea, tema cui l’autore si è sempre dedicato tanto nelle opere di fiction quanto in quelle di non-fiction. Un’America democratizzata solo in superficie ma intimamente perversa e crudele, che si riconferma, anche indirettamente, teatro tragico di contraddizioni inestinguibili e dell’ipocrisia ideologica – oggi politicamente corretta – del melting pot. Allora come non dare ragione a Demme, che è un autore ancora convinto che gli argomenti scomodi e controversi ci siano e vadano stanati? (anton giulio mancino)