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Basic Instinct 2

Ci si chiedo, dopo aver visto Basic Instinct 2 e la sua tardona sexy tra i cachinni compiaciuti dei critici, se il film non sia in realtà una satira della psicanalisi e dei suoi adepti sotto le sue mentite spoglie di thriller sanguinolento a sfondo soft/hard core. Perché come thriller è talmente astruso e complicato, con le sue rivelazioni a foglie di carciofo, da far sospettare negli autori della sceneggiatura (Leora Barish e Henry Bean) un infantilismo congenito; del resto non sarebbero soli, è tipica della categoria.
Come soft/hard core, poi, la televisione a tarda notte, i cinema a luci rosse periferici, Internet, e porno cd d’ogni razza genere e colore, offrono assai di più delle partouze che si intravedono qui tra il lusco e brusco, e delle scosciature della perversa Trammell/Stone. La quale Stone, con i suoi cinquant’anni prossimani (quarantotto, per l’esattezza) è bellissima, un miracolo di ricostruzione robotica per quanto riguarda il viso e dintorni e le gambe, perfette; ma il corpo che si vede nella vasca idromassaggio, chiaramente il suo, ha qualche segno di flaccidità; meglio le veline di Striscia.
Ma veniamo al polpettone sexy-giallo. La scrittrice scervellata e iettatrice Catherine Tramell – sì quella che ne aveva già combinate di cotte e di crude nel primo Basic Instinct di Paul Verhoeven – viaggia a 180 all’ora su una macchina sportiva per le strade assurdamente deserte di Londra. Accanto a lei un nero drogatissimo e semi-intontito la titilla a dovere. Durante l’orgasmo l’auto sbanda e i due finiscono nel Tamigi. Il giovanotto muore intrappolato nell’abitacolo, lei si salva.
È il prologo di una vicenda che la vede incolpata di omicidio e salvata in extremis dalle dichiarazioni dello psichiatra psicologo (David Morissey). Il quale psichiatra finirà sedotto dalle seducenti perversioni della scrittrice, che diventerà sua «paziente». Lui è un avviatissimo professionista, con uno studio megagalattico nella New London dei Docks, prospiciente al celebre grattacielo fallico di Foster (sembra anche una colorata supposta, e il riferimento simbolico non cambia). Ha una collega psicanalista (Charlotte Rampling), e i loro dialoghi sono del seguente genere. Lui: «Sai, lei ha lasciato la seduta venti minuti prima della fine». Risposta della psico-rampling: «Ah, molto lacaniano, questo!». Il gran guru della psicanalisi poi, quello che dovrebbe premiare con alto incarico universitario il nostro psichiatra, capelli neri molto scarrufati a indicare genialità, sembra il fratello di Vittorino Andreoli. Parla e svanvera dietro a un quadro di Freud, ma sembra piuttosto uno junghiano dei tempi di Re Nudo, con l’India nella testa vuota (ricordate Valcarenghi e gli arancioni?).
Scene di omicidi efferati e di sesso sfrenato si susseguono pausate da lenti primi piani intrecciati di lei e lui. Lei ha un’espressione unica, che indossa dalla prima all’ultima scena, perfino quando lui tenta di strozzarla in vasca, ed è quella che significa «ironica perfidia con foia»; lui ha un’espressione unica, di tanto in tanto variata da strabuzzamenti di occhi come quando qualcosa imbocca la trachea invece dell’esofago, anche quando lei tenta di strozzarlo con cintura dei pantaloni. Ed è quella che vorrebbe significare «infoiamento represso da indignazione», ma che in realtà produce nell’attore solo uno sguardo da catatonico-ebefrenico.
Tutto nel film, nonostante l’indotta comicità, è fiacco come la regia (Michael Caton-Jones) o ridicolo, dalla sceneggiatura alla scenografia, ai costumi, sempre iper (lei tacchi alti anche quando è in cucina o al computer), ai quadri alle pareti (significativo un culone-Botero). Quanto alla trama, non è mai chiaro fino in fondo chi sia l’assassino, se lui, lei o l’altro (l’ispettore corrotto, alias David Thewlis), talmente la verità cambia per sorprese pseudo-pirandelliane (Così è se vi pare). Quando poi, nelle ultime inquadrature, si capisce chi è il folle omicida, si capisce anche che gli sceneggiatori sono dei dementi oppure cinicamente reputano che lo siano gli spettatori. (piero gelli)