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Amorfù

Elena è una giovane psichiatra che sta completando la specializzazione sotto la supervisione del suo professore e mentore, Franco, direttore di una comunità di recupero per disadattati e
matti.
Qui la giovane donna si imbatte in Fausto, un estroso musicista, instabile ma con evidenti segni di normalità. Subito e istintivamente, Elena decide di aiutarlo. Ben presto Fausto diventa un paziente speciale per cui la donna si rende conto di provare sentimenti che vanno oltre il semplice rapporto psicoterapeuta-malato. I due, dopo la fuga del ragazzo dalla comunità, si trovano in breve a vivere insieme ma Fausto, finalmente libero, trova nella realtà di coppia una prigione assai più difficile da sopportare.

Quarto lungometraggio di Emanuela Piovano, questo
Amorfù
tocca temi cari alla giovane regista torinese: il disadattamento e la difficoltà dei
matti
a vivere nella cosiddetta normalità. La patologia contiene in sé diversi aspetti naturali e coloro che stanno ai margini della società, in realtà, non sono poi così malati. Questo il messaggio principale di un film nel quale il racconto di una storia d’amore tra una psichiatra e il suo paziente diventa il pretesto per confrontare due mondi non troppo distanti. Nessuno è realmente malato, e tutti lo sono. Di fatto la Piovano non propone nulla di nuovo sia dal punto di vista tematico che da quello strettamente cinematografico. Non mancano spunti di impatto emotivo (Fausto che gioca a fare l’equilibrista stagliandosi su un cielo terso), ma la sceneggiatura e, in parte, l’interpretazione dei protagonisti appaiono forzatamente irreali e, a tratti, snervanti. Il risultato è un’opera fatta di alti e bassi, che non riesce a rendere fino in fondo l’incomunicabilità tra i personaggi. Sonia Bergamasco, già protagonista de
La meglio gioventù
di Marco Tullio Giordana, conferma le sue capacità di interprete
istericamente drammatica,
tutta scatti e pianti improvvisi, cui ha abituato il pubblico. Nei panni di Elena tocca anche momenti di intensità emotiva ma senza convincere fino in fondo, probabilmente per la presenza al suo fianco di Ignazio Oliva. L’attore, già visto in
Io ballo da sola
di Bernardo Bertolucci, non trova nel ruolo di Fausto la giusta dimensione per rendere la patologia del suo personaggio. Tra grida isteriche, attacchi d’ansia e toni fin troppo sommessi, ritrae un
matto
che quasi nulla ha di convincente. Nel film, oltre al bravo Luigi Diberti, sono presenti i gradevoli cammei di Mita Medici, Barbara Mautino, Paolo De Vita e Bruno Gambarotta, nei panni degli altri pazienti della comunità. Né storia d’amore né ritratto di una patologia: l’intento della regista non è chiaro nemmeno quando in sala si riaccendono le luci.
(emilia de bartolomeis)