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Amici ahrarara

Parliamo di Amici ahrarara con la serenità di spirito di chi i Fichi d’India – al secolo Max Cavallari e Bruno Arena – non li ha mai potuti sopportare, né in teatro né in televisione. Detto questo, il loro film è una piacevole sorpresa, che propone un divertimento discreto, minimalista, misurato, d’altri tempi. E quando diciamo «d’altri tempi» intendiamo che l’elemento davvero notevole di questa pellicola è il recupero sistematico e filologico di una comicità da comica finale, da albori del cinema. Pozzetto e Villaggio avevano già tentato, tempo fa, di riportare in vita le «comiche», finendo schiacciati da un’intenzione citazionista a lungo andare fastidiosa. I Fichi d’India, invece, riescono perfettamente nell’intento: segno che questa comicità sostanzialmente elementare e regressiva è proprio la loro cifra stilistica, perfettamente adeguata alle loro corde.
La prima parte del film si regge sull’equivoco del travestimento femminile: cosa che nessun comico, da che esiste l’arte cinematografica, ha potuto esimersi dal fare. Poi comincia un road movie sull’impianto di un plot pretestuoso: far riacquistare la memoria allo zio ricco, in modo che possa modificare il testamento in favore dei due disgraziati ma affettuosi nipoti. In tutto questo, come da repertorio di un Ace Ventura in minore, il duo regala alcune gag memorabili cimentandosi con gli animali (estrema risorsa del cinema contemporaneo: fotogenia zoofila): una pecora che finisce «suicidata» in un pozzo, la sepoltura del cane dello zio, una corsa di maiali nel borgo ciociaro, e in più la garbata esibizione di tutta una serie di performance circensi gettate lì con la modestia di due fratellini stralunati del trio Aldo, Giovanni e Giacomo.
Niente di straordinario, per carità: piuttosto un film godibile, per niente stupido (in quanto la stupidità è sempre tenuta saldamente sotto controllo), mai volgare. I due Fichi che si sdoppiano anche nei ruoli femminili delle proprie zie (da Fatty a Laurel & Hardy, passando per mille Cretinetti e Tontolini…) tengono a freno la loro tendenza al rumore incontrollato, all’aggressione dello spettatore a suon di tic e grugniti. Riescono così a interpretare con saggezza i propri personaggi e si avvalgono – per completare il trio – di un formidabile Giustino Durano nei panni dello zio Giannangelo, guitto anziano che non ci si stanca di veder passare da un registro all’altro con la versatilità e la sensibilità sorniona da attore (anch’egli) d’altri tempi. (giacomo manzoli)