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Alle cinque della sera

Nella Kabul distrutta dalla guerra scoppiata dopo l’11 settembre, un anziano carrettiere, profondamente rispettoso delle leggi coraniche, cerca di guadagnare qualche soldo per mantenere la sua famiglia: la cognata da poco madre di un bambino e la giovane figlia, Noqreh. Nell’attesa di ricevere notizie del figlio camionista, scomparso da mesi e probabilmente morto in uno dei bombardamenti, il vecchio accompagna tutte le mattine Noqreh a seguire le orazioni coraniche. La ragazza, in realtà, frequenta di nascosto la scuola, ora aperta anche alle donne, e si mette in testa di diventare il primo presidente di sesso femminile dell’Afghanistan. Nel frattempo la situazione a Kabul peggiora con l’arrivo dei profughi pakistani in cerca di un alloggio. La famiglia comincia a spostarsi di luogo in luogo per trovare un posto sicuro sino a quando il carrettiere decide di portar via le due donne dalla città, dove imperano il peccato e la perdizione, intraprendendo un disperato viaggio verso le montagne.

Alle cinque della sera,
presentato allo scorso Festival di Cannes e vincitore del Premio della Giuria, è la terza opera di Samira Makhmalbaf. A diciotto anni, dopo aver realizzato
La mela
nel 1997 e
Lavagne
nel 2000, la figlia d’arte di Mohsen Makhmalbaf (l’autore di
Viaggio a Kandahar)
torna sul difficile tema della condizione della donna nei paesi musulmani, ambientando la vicenda in pieno dopoguerra afghano. Gli attori non professionisti, gli ampi e brulli altopiani afghani e le rovine di Kabul, arrampicate su colline sabbiose, sono gli ingredienti principali di una pellicola che analizza le problematiche di un paese in crisi con un approccio documentaristico e poetico nello stesso tempo. La storia della coraggiosa Noqreh, che va a scuola di nascosto mostrando liberamente il viso e indossando scarpe con il tacco, è solo il punto di partenza per una riflessione profonda sul disagio e sulle contraddizioni di un popolo sconvolto e confuso da un conflitto inutile. Gli anziani che si segnano e fanno penitenza se scorgono il viso delle ragazze con il burka sollevato e i giovani che scalpitano per farsi radere la barba sono solo uno degli aspetti affrontati dalla regista, la cui opera mira a far entrare lo spettatore europeo in contatto con una realtà che può solo immaginare. Annullando il filtro dei media, la regista mostra una Kabul disperata e colorata, lancia segnali di speranza ma racconta anche una profonda crisi. Per un bambino che muore di stenti e freddo, c’è una ragazza come Noqreh che scopre di avere almeno una possibilità di riscatto. Nessun giudizio sull’operato dei talebani o degli angloamericani, posti sullo stesso piano. L’unico messaggio evidente sta scritto nella ripetizione ipnotica dei versi della poesia di García Lorca che dà il titolo al film. Noqreh sarà padrona di se stessa, nonostante tutto.
(emilia de bartolomeis)