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Alla luce del sole

1990: in una Palermo mediorientale e antelucana, alcuni ragazzini mettono dei gatti nelle gabbie di cani famelici che più tardi combatteranno per le scommesse clandestine. Quegli stessi ragazzini getteranno da un palazzo il cane perdente. Con questo antefatto di violenza e sadismo infantili Roberto Faenza apre il suo film su don Puglisi, il prete-martire assassinato dalla mafia il 15 settembre 1993 a Brancaccio. I primi cinque minuti mostrano già le due anime di tutto il film: il degrado del quartiere – l’unico di Palermo in cui non esiste una scuola media, che ha la più alta densità mafiosa, terra di nessuno dove regna solo l’ordine delle cosche – e dei suoi figli che vivono in strada, molti con i genitori in galera o le madri prostitute, spesso lavorando per i boss.

In questa realtà, in queste strade senza fogne, dove gli uomini si dividono in chi cammina a testa alta (gli uomini d’onore) e chi cammina a testa bassa, arriva don Pino Puglisi (Luca Zingaretti) «per insegnare alla gente onesta a camminare a testa alta». E per farlo sceglie di partire dai ragazzi, che giocano a calcio per la strada, a sei anni rubano autoradio col coltello e a dieci vengono arrestati. Per loro sistema il campetto della parrocchia, con tre suore e un diacono mette su un centro dove far giocare i bimbi, organizzare feste e insegnargli che un’altra vita è possibile. Con gli adulti (la metà oscura del mondo che ci rappresenta Faenza), assuefatti alla viltà e alla corruzione, il dialogo è quasi impossibile, perché don Pino chiede agli amministratori spazi e non inerzia, combatte il potere dei mafiosi sulle menti spingendo i giovani a pensare con la loro testa. Inevitabili le minacce e l’annunciato (dallo stesso regista) copione della sua fine.

Faenza si è documentato a lungo per scrivere la sceneggiatura, cui hanno collaborato suor Carolina Iavazzo e Gregorio Porcaro (la suora e il diacono che affiancarono don Puglisi in quegli anni), eppure non ha saputo evitare né le trappole della retorica denunziataria né quelle di una certa iconografia stereotipata dei film sulla mafia (quando smetteranno i registi italiani di rappresentare i padrini come boss sudamericani con tanto di macchinoni e donnine? Ma non hanno visto le facce di Riina e Brusca?). Anche l’idea di puntare sui bambini (usati con eccesso di furberia per strappare troppo facilmente la risata o la lacrima) risulta fallimentare se lo scopo era quello di tratteggiare un prete scomodo ed «eversivo» perché sapeva dove andare a colpire. Grazie all’interpretazione profondamente umana di Zingaretti, don Puglisi non appare solo come un parroco di borgata armato di buoni propositi e tenace bontà. Peccato non emerga il don Puglisi colto, che faceva corsi di alfabetizzazione per adulti, peccato non si dia giusto risalto agli sforzi per comprare il suo centro d’accoglienza, alle battaglie quotidiane per le tante legalità negate – né bastano, in tal senso, una sequenza in cui prostitute e ragazze madri vengono istruite sui diritti sanitari, o la solita macchietta del politico corrotto.

Forse, meno scene commoventi di ragazzi e più squarci di vita vissuta avrebbero conferito maggiore spessore e drammaticità a un film che ha i suoi momenti migliori nella rappresentazione dell’intimità dell’uomo Puglisi, solo con le sue paure, o in quella del degrado delle strade, immagini che dicono più di ogni proclama. Forse una carrellata odierna per quelle strade irredimibili (come diceva Sciascia), anziché il finale imperdonabilmente consolatorio, avrebbe reso più giustizia all’ingiustizia della memoria. O forse anche Faenza, come altri, è incappato in un problema insolubile per un certo cinema: la grandezza degli umili nella loro quotidiana straordinarietà è irrappresentabile.

In contemporanea con l’uscita del film, Gremese editore pubblica il libro omonimo, che contiene interventi di Vincenzo Consolo e del giornalista Francesco Deliziosi, il maggior biografo di Puglisi.
(salvatore vitellino)