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8 Mile

Detroit 1995, Jimmy Smith Junior (Eminem) lavora in un’officina di paraurti, vive con la madre e la sorellina in una roulotte alla periferia della città. Ama rappare, ma fa fatica a esibirsi e a entrare in un mondo prevalentemente nero. Ha un gruppo e molte speranze, però è reduce da una brutta figura in un locale di musica, dove non è riuscito a esibirsi per l’emozione. Ha appena lasciato la sua ragazza. Una vita difficile, in un ghetto nero, dove le risse tra band sono all’ordine del giorno. La scena hip hop, per chi vuole emergere, è spietata, ma Jimmy «Big Rabbit» Smith ha voglia di farcela, di incidere un disco e risollevarsi. 8 Mile è la strada che divide la città dei bianchi dalla periferia dei neri e Rabbit è accusato di essere nato dalla parte sbagliata. Una Detroit ormai fatiscente, che per nulla ricorda la città del boom economico automobilistico. Una sfida a colpi di rime può diventare l’unico mezzo di affermazione e lo scrivere versi l’unica ancora di salvezza dal baratro esistenziale. Peccato. Peccato che certi film si debbano tradurre dalla lingua originale. Nel caso italiano, poi, è stato affidato a gente che vive e pensa luoghi comuni, frasi fatte di neologismi che sembrano coniati da cabarettisti. Pesante sopportare quasi due ore di slang improvvisato, che ridicolizza enormemente i personaggi del film. Senza considerare questo grave handicap linguistico, comunque,
8 Mile
è una buona occasione sfruttata male. Il mondo hip hop e la disintegrazione sociale di Detroit sono troppo semplificati. In alcuni momenti sembra di guardare
Rocky
o
La febbre del sabato sera,
, con la differenza che sono passati più di vent’anni e che quindi ci si aspetta qualcosa di nuovo. Eminem ne esce bene, ma forse non è difficile interpretare se stessi, il vero esame arriva dopo. Brava, come al solito, una sempre splendida Kim Basinger.
(andrea amato)